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04 agosto 2020
Intervista a Derio Olivero a cura di Chiara Genisio

La chiesa che sogno



in “Vita Pastorale” del l’agosto/settembre 2020

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Quasi cinquanta giorni d'ospedale per Covid-19, la morte sfiorata e il ritorno a vita. Tra i numeri tragici dei bollettini quotidiani dei contagiati, il 19 marzo è comparso anche il suo nome: Derio Olivero, vescovo di Pinerolo. Trasportato d'urgenza all'ospedale di Pinerolo ha attraversato tutto il percorso più pesante di cure. Decine di migliaia di persone hanno pregato per lui, hanno sperato nella guarigione. E questo don Derio lo ha sentito. «Sono vivo per miracolo», confessa. Per accogliere gli insegnamenti e le provocazioni che la pandemia ha portato nella Chiesa e nella società, monsignor Olivero non si risparmia. Le sue parole stanno facendo il giro del mondo. Instancabile. La sua drammatica esperienza di contagio, unita allo sguardo verso il futuro, è
raccontata nel libro «Verrà la vita e avrà i suoi occhi» (San Paolo). Nella prefazione il cardinale Zuppi svela: «Nei suoi occhi vedo rispecchiata la luce dell'amore per una Chiesa di comunione, di rapporti che diventano presenza di quel Dio che cerca la relazione con ogni uomo, [...] in questo libro c'è tanta sofferenza ma anche tanta luce per il nostro cammino».

Monsignor Olivero dopo la tempesta da pandemia, cos'è la bellezza dell'arcobaleno?
«Che ci siamo resi conto che possiamo uscirne solo creando una rete. Ciò che è accaduto non riguarda una persona o un gruppo, ma è una questione che coinvolge tutti. L'arcobaleno, allora, è che in rete si può affrontare qualunque tragedia, forse lo avevamo scordato. L'arcobaleno è la parola comunità. S'è riscoperto che siamo parte di un tutto, e proprio riconoscendoci parte di una comunità possiamo rinnovarla. Possiamo affrontare il dramma che abbiamo vissuto e, quindi, rinnovare la comunità quando sarà finita».

Al risveglio dal coma ha detto che l'hanno salvata le preghiere, e ciò che conta sono solo le
relazioni. Che cosa è per lei una relazione?
«Quand'ero prossimo alla morte e tutto evaporava, molti volti mi sono apparsi nella mente. E rimanevano parte di me con la fiducia in Dio, che è un'altra relazione. Relazione è la capacità di fare spazio a qualcun altro e saper promettere qualcosa ad altri e saperne essere fedeli. Una vera relazione ha queste due grandi dimensioni, vale per gli amori che per le amicizie. L'ho scoperto vivendo questa esperienza. L'ho sempre detto, ma forse in modo un po' teorico. Ora l'ho riscoperto: le relazioni sono la parte più vera di noi».

Quante relazioni può avere ciascuno di noi?
«Non abbiamo un cuore infinito, ma abbiamo la possibilità di ospitarne di più di quelle che abbiamo».

Se l'hanno salvata le preghiere di tanti uomini e donne, vuol dire che ancora sappiamo pregare?
«Tantissimi mi hanno affidato con il cuore, con affetto al buon Dio. Questo è pregare. Affidare, confidare, affidarsi. Nutrire la fiducia. Siamo ancora capaci di saperlo fare. La preghiera è un allenamento della fede. Si dice che chi crede deve pregare, in realtà è vero anche l'opposto: chi prega riesce anche a credere».

Lei ripete che non dobbiamo tornare come prima, anche nella Chiesa. Che cosa non andava bene?
«La cosa essenziale l'ha detta il teologo don Giuliano Zanchi: "Le parole della Chiesa sono logore". Cioè non incidono nella vita e non aprono alla speranza. Questa è una delle fragilità della nostra Chiesa. In un'epoca di cambio radicale di paradigma non abbiamo ancora ritrovato parole per dire, in modo nuovo, il cristianesimo. La Chiesa, troppo spesso, è una buona macchina organizzativa, ma non una comunità di relazioni. Come afferma il teologo don Ivo Seghedoni: "Abbiamo bisogno non di una Chiesa che va in chiesa, ma di una Chiesa che va a tutti". Mi piace molto. Il rischio è di non prendere in considerazione i credenti non praticanti. Ci siamo trovati in una situazione in cui tutti non potevamo praticare, e s'è visto che ci sono anche altre dimensioni che curano la nostra fede e spiritualità. Il valore della messa è centrale, ma non basta».

Per lei sono importanti le parole. Quali non dobbiamo mai dimenticare nel nostro quotidiano?
«La prima è fiducia. Se c'è un compito delle donne e degli uomini adulti è quello di continuare a credere nella vita per sé e per le nuove generazioni. Questo vale ancor di più per i cristiani. Una fiducia che occorre mostrare. L'altra parola è essenzialità. Da tempo siamo consapevoli che dobbiamo essere più essenziali anche rispetto allo sfruttamento della terra».

Come inizia la sua giornata dopo Covid-19?
«Dopo aver rischiato di morire, mi sono reso conto che mi è stata concessa un'altra opportunità. Ho un senso enorme di gratitudine. Spesso penso al respiro — ho avuto problemi seri di respirazione —, e immagino che ogni respiro sia un regalo. È una sensazione molto bella, che mi aiuta a guardare il sole che sorge o una persona che incontro come un dono. Ho una carica che spero mi resti nel cuore per i prossimi anni».

Quale Chiesa sogna?
«Sogno una Chiesa come quella che ci indica Francesco: in uscita. Che sappia donare voce alla vivacità del cristianesimo e alla trasparenza del Vangelo; che aiuti a pensare con libertà e punti molto sulle relazioni».





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