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Il personalismo teista allo specchio




Il personalismo teista allo specchio.

Personam tragicam forte vulpes viderat:
O quanta species -inquit - cerebrum non habet
FEDRO, Le favole, I, 7


1. Il tema

Se la "persona" fosse originaria non ci sarebbe bisogno di spiegazioni per definirla. "Ciò di cui abbiamo bisogno non è forse la spiegazione dei dischi volanti - ha precisato Popper - ma quella dei resoconti delle apparizioni dei dischi volanti; tuttavia, se i dischi volanti esistessero davvero, non ci sarebbe più bisogno di altre spiegazioni di tali resoconti" (1). Ecco perché l'explicans - che costituisce l'oggetto della nostra ricerca -non sarà, di regola, noto; ma dovrà essere scoperto. La "persona" è tale oggetto ed essendo un "essere" tra "esseri" non presenta nulla di oggettivamente superiore agli esseri della sua specie, anche perché non accetta nemmeno di appartenere a una specie unica. La "persona" insomma è un sistema che non è in grado di giustificare se stesso, visto che è sempre lei che deve decidere in che cosa consista la "persona" e se altri sono "persone". In mancanza di un approdo scientifico sicuro bisognerà, forse, affidarsi a strumenti "volontaristici" o, almeno, "statistici"; simili a quelli che introducono nella storia dell'alimentazione il burro. Il burro, infatti, non esiste in natura, ma lo si ottiene operando su di un dato - il latte - la cui "personalità" non è evidente se non per un rimando alla mucca (2). Resta il dubbio-timore che la "visione del mondo" deoggettivizzi la realtà e la metta in fluttuazione permanente. Non ci riferiamo all'errore dei sensi e alla crisi gnoseologica aperta da Cartesio, ci riferiamo alla "paideia antropologica" che sta a monte dell'io e non di fronte ad esso, come vi sta il cosiddetto "oggetto".


2. La teoresi

Maurice Clavel ha questa lunga impennata: "Abbiamo una invincibile tendenza a pensare che quest'uomo assoluto, singolare e universale, che ha preso coscienza di se nella ideologia circa due secoli fa, sia qualcosa di scontato, che esiste in se, per natura, e che noi siamo nati come dicono Jean-Jacques e la Dichiarazione dei Diritti dell'uomo, singolari, universali, uguali e liberi. Ma questo uomo, che due secoli fa era sicuro di se e che oggi sempre più si nega e si autonega, esiste veramente? lo dico di sì, ma non per natura: per soprannatura. Io dico di si, ma in quanto opera che è il prodotto di una ricreazione storica divina, e questa ricreazione ha un nome. Si chiama rivelazione, o più precisamente: rivelazione giudaico-cristiana. Essa comincia con Abramo e culmina con Cristo. Abbiamo impiegato dieci secoli per laicizzare la sua essenza e, in altre parole, per svuotarlo della sua esistenza, e due secoli per consumare la sua distruzione definitiva, e oggi si può dire che essa ricomincia" (3).

L'uomo in quanto "persona" non è, dunque, per se evidente; ma cerca la sua "evidenza" in un rimando. Da qui il rischio e la speranza; il rischio di cadere in territorio "altro" (alienazione) e la speranza di ritrovare la sua vera radice e anche la sua identità. Husserl diceva che avrebbe avuto bisogno, per l'esame di ogni singolo dogma (religioso), di almeno cinque anni di tempo; perché anche la fede ha una sua trama noematica. Qualcuno volle precisare come egli non avvertiva che la fides quae è sorretta dalla fides qua e cioè dalla libertà coinvolgente tutto 1 'uomo, che è l'atto di credere. Però è anche vero che la coscienza (o il pensiero) si trova davanti al "dato rivelato" come si trova davanti alle "cose". Con questa differenza: mentre il "dato rivelato" è comunicazione di pensieri mediante il linguaggio; le "cose" sono concretizzazioni di un pensiero divino - almeno nella visione giudeo - cristiana del mondo e quindi messaggi da decifrare. Le "cose" sono evidenti come cose e non come pensiero; la: rivelazione, invece, è un messaggio espresso con "parole" ed esige, a sua volta, l'uso dell'ermeneutica. Da tutte le parti si odono scalpitii e nitriti di cavalli frementi nel chiuso recinto delle antiche scuderie. Per Mounier nessuna forza e nessun regime racchiudono la verità, ne concludono la storia. Unico ,principio rivoluzionario è lo spirito "che reinventa, al suo livello, ogni civiltà". Da qui il ruolo storico del "personalismo": riaccentrare il pensiero attorno al soggetto pensante. Filosofia dell'uomo "contro l'eccesso della filosofia delle idee e l'eccesso della filosofia delle cose" (4).

Nel primo editoriale di "Esprit" (1932) Mounier, giustamente, non fa appello a un nuovo medioevo (5), ma a un nuovo rinascimento e cioè a un rivolgimento che esige insieme una conversione interiore e un assetto della società che ruoti attorno alla persona e ai suoi autentici bisogni. Ma la persona -, e in ispecie l'altro - è valore che si impone o è valore che è volontariamente posto? E chi enfatizza la persona è proprio sicuro di averla come interlocutrice "oggettiva" o non avrà piuttosto una maschera che oscilla davanti all'io, priva di consistenza ontologica? Si tratta di un dubbio legittimo cui deve applicarsi il filosofo. Ed è quanto ha fatto Husserl. Se c'è l'altro come avviene la sua conoscenza? "Gli altri - egli dice - non sono tuttavia mere rappresentazioni o oggetti rappresentati in me, né unità sintetiche che possono verificarsi in me". Eppure HusserI nega una conoscenza diretta e immediata dell'altro, in quanto altro, facendo uso di questa argomentazione: "Se l'essere dell'altro fosse accessibile in maniera diretta, esso non sarebbe che un momento del mio proprio essere, ed in conclusione egli stesso ed io saremmo una sola cosa" (6).

Husserl non ammette la conoscenza diretta e immediata del tu perché teme la strumentalizzazione - riduzione dell'altro a momento del mio essere - e intanto mi mette nel continuo rischio di diventare il "creatore" dell'altro (7). Come è possibile attingere l'altro in quanto soggetto autonomo all'interno della sfera della intenzionalità dell'io conoscente? Gli altri - osserva Husserl - mi si annunciano come soggetti che hanno esperienza dello stesso mio mondo; mi sono presenti per mezzo di una conoscenza speciale, l'appresentazione. Il comportamento, cioè, di quel dato corpo mi si presenta come indizio di una psichicità simile alla mia, la quale mi racconta ciò che io vedrei se fossi dentro alla sua pelle (8) L' alter ego si giustifica all',interno della intenzionalità del mio io. Husserl parla di Einfuhlung o "enteropatia", e cioè di un atteggiamento spirituale che permette di penetrare nell'esperienza altrui fino a mettersi nei suoi panni. Così, ogni io, pur restando chiuso nella sua invalicabile soggettività, riflette in se stesso gli altri soggetti trascendentali. E siamo alla comunità delle monadi. Husserl, insomma, non se la sente di affermare che l'altro è un tu esistente storicamente in maniera unica e irripetibile nella sua singolarità, pur dovendo ammettere che all'interno della stessa coscienza trascendentale è possibile intendere il fondamento delle strutture interpersonali e cioè la storia, la società, la cultura. Se l'io (il pensiero) non è aperto sull'essere, non è aperto neanche su gli altri io ed essi saranno sempre una modificazione del mio io. Se ciò accade per ognuno; (per ogni io), ognuno, annulla l'altro nel proprio se; o se lo fa essere lo fa essere alle condizioni volute da lui. Per conoscere l'altro, in quanto altro, debbo superare il presupposto idealistico. Ed è presupposto idealistico il rifiuto, per es., del concetto di "creazione" (vedi Fichte). Se non esiste un "Pensiero creante" dietro le cose, sulla scena restano soltanto lo spirito e la "materia" e dovendo decidere in quale rapporto vengono a trovarsi si riconoscerà il primato allo "spirito", il quale diventerà così il "creatore" di tutta la "realtà"; e poiché anche l'altro è tra i "reali", risulterà una mia "creazione" e l'io, in definitiva, sarà l'autore e della verità ontologica e della verità logica. All'aliquid est posso dare i miei "significati"; ma se l'aliquid est è un pensante, come posso renderlo oggetto di "decifrazione" se egli "decifra" allo stesso modo anche me ? Forse ciò spiega perché l'uomo ha inventato la guerra per chiarire i suoi rapporti con gli altri io; mentre ha inventato la scienza per assimilare a se - o per ridurre alla propria obbedienza -l'intero cosmo (9).


3. Il "personalismo"

Non è nostra intenzione dare un giudizio articolato sul celebrato "personalismo" di origine mounieriana. C'è chi lo ha fatto e meglio di noi. Qui intendiamo "saggiarlo", brevemente, come espressione di un certo teismo progressista il cui logos si è lasciato fecondare dal Logos in senso rivoluzionario. Mounier si trova a uno stadio alto della "civiltà cristiana" e ciò che appare curioso ,è il fatto che egli debba "ritrovare" un postulato di antica radice. Qualcuno ha detto che "per lui (Mounier) non si tratta di inventare un cristianesimo rivoluzionario o un comunismo cristiano. Come per abbellire le nostre chiese non bisognerebbe aggiungere nulla, ma sopprimere in modo massiccio ori e gessi, così per rompere la muraglia di malintesi che soffoca ormai il messaggio cristiano, non bisogna inventare qualche magica verità, ma inventare il cristianesimo" (E. Variale) o, per lo meno, rifarne la corretta lettura. Ecco il nodo da attendere al pettine. Mounier fonda la "persona" laddove la fonda il teismo giudeo-cristiano; ma vi deduce prassi diverse da quelle dei suoi compagni di fede (teisti conservatori), che pure si riferivano a un Dio-Persona. Ascoltiamo il suo colpo di tromba: "Il personalismo cristiano va fino in fondo: tutti i valori si raggruppano per esso sotto il richiamo singolare di una Persona Suprema" (10). D'accordo: "La prova della trascendenza e della esistenza di Dio, valore dei valori, non è di ordine teoretico. Questo è il punto cruciale della dottrina mounieriana dei valori" 11). Ma qui il riferimento batte un percorso biblico-fideistico più che un percorso metafisico (12).

Spieghiamoci, variando la chiave del discorso: per Socrate Dio è "razionalità provvidente" e rappresenta un ideale liberante e stimolante di vita morale; per il teista veterotestamentario Dio è si "Persona", ma Legislatore eteronomo e Capitano di eserciti; per Cristo Dio è "Padre", portatore di perfezione infinita; per i teisti cristiani, Dio è formalmente "Padre"; ma, poi è anche Legislatore e Capitano e operatore di "miracoli" In ciò l'insidia per la fondazione della "prassi" e, da capo, la persona entra in oscillazione. È vero: "Nella lettura delle sue (di Mounier) opere si ha l'impressione che l'affermazione della sussistenza personale sia un dato presupposto (...). Il fondo della, persona è inafferrabile proprio per la sua originalità ed irrepetibilità; perciò è impossibile sapere in cosa consista (13).

E tuttavia questo momento "fideistico", pur irritante per i filosofi, potrebbe avere una sua legittimità se fosse assunto, per così dire, a viso aperto; visto che l' orizzonte etico è occupato ovunque dalla "intuizione emozionale dei valori" (Scheler). Più pungente invece è il rendiconto chiesto alla scelta "volontaristica": "Non comprese (Mounier) che la vita umana si svolge si nella lotta e nella realizzazione, ma che deve in ultima analisi riconoscere una incommensurabilità tra i valori e la loro incarnazione" (14). Ciò denota che è più facile chiamare a raccolta - o aggregarsi con - qualcuno per combattere il "male" presente nella storia; anziché unirsi per mostrare in positivo un sia pur minimo "modello" di "bene". La prima operazione è un invito a far esplodere l'affermazione di se; mentre la seconda implica la rinuncia di se e porta il conflitto dentro alla stessa "persona".

Per quanto attiene al "personalismo" dell'orchestra italiana, citiamo Luigi Stefanini e le sue orecchiabili sinfonie. "Ben più che un'unità - egli canta -, io sono un'unicità una realtà irrepetibile () e perciò non si può commerciare, barattare (...). Il mio problematicismo è quello di S Agostino, quello che prescrive di cercare per provare e di trovare per cercare ancora (...) Si parte dal sum invece che dall'esse: cioè dall'esse vivo nell'atto, veggente ed amante, per cui la singola persona umana si manifesta a se stessa e si penetra nei suoi caratteri di unità, identità (), spiritualità, produttività (). L'essere si razionalizza in quanto diventa persona (). Come ha visto, con anima cristiana, il grande Gioberti, tutti i doveri sono doveri verso la persona, tutti i peccati sono violazioni del diritto della persona (). L'uomo non è il tutto, ma è un tutto". E, infine, la nota opologetica legata, per definizione, al "personalismo cristiano": "La indissolubilità del vincolo matrimoniale è il correlativo sociale della sostanzialità della persona umana. L'Italia cattolica, che è rimasta pressoché unica nel mondo a preservare nelle sue leggi l'indissolubilità del vincolo matrimoniale, preserva con esse una delle ragioni più alte e intime dell'umanità" "A nostro giudizio, la debolezza dell'Italia cattolica stava proprio nel preservare "l'indissolubilità del vincolo" con la forza delle leggi. È "cattolico" solo ciò che si "annuncia" e si "mostra" come salvezza, non ciò che si preserva con leggi. Se è vero che è indissolubile solo ciò che Dio ha congiunto, bisogna far si che la congiunzione (o vincolo) avvenga "in Dio"; ma non importa in nome di Dio per il tramite di una legge Il regno del sabato non può mai sostituirsi al regno delle persone.



4. La Bibbia

La Bibbia vede nell'uomo una immagine e una simiglianza (si badi: una simiglianza e non una somiglianza} e relativamente alla molteplicità degli uomini afferma il monogenismo. Tutto ciò favorisce l'idea dell'uomo come specie unica (16); ma nello stesso tempo l' altro resta un mistero. Bisogna dire che Eva è "ossa delle mie ossa" e bisogna dirlo perché è una scoperta, più che una evidenza. Adamo riconosce in Eva un altro se stesso, ma subito la "disobbedienza" a Dio turba le loro relazioni, ed ecco arrivare la poligamia, la schiavitù, la violenza (17). In Israele non esiste razionalità autonoma, se non per interpretare la "parola di Dio". E Dio interviene per stabilire quali sono i cibi e gli animali "puri" e "impuri" , come interviene per indicare quali sono gli uomini da combattere e da distruggere, rimettendo così in dubbio la unità della specie.

La storia sacra inizia con un proclama razzista: "Jahvè disse ad Abramo (...), non ti chiamerai più Abramo ma Abraham". Un uomo - che è piuttosto seme - anziché essere invitato a superare se stesso (conversione) viene selezionato dal "mucchio" per dare inizio a una "egemonia": Dio "dilesse soltanto i tuoi padri e li amò" (18). Nasce qui il dualismo dentro alla specie e cioè l'esaltazione di una persona e il rifiuto delle altre (19). Nasce qui il Dio degli eserciti concepito come un capitano schierato con un popolo e partigiano di una "religione". Nasce qui la nozione di "popolo eletto" e, dunque, la radice dell'etnocentrismo. Nasce qui l'idea di un Dio che giustifica la guerra per distruggere "sette popoli nel paese di Canaan", allo scopo di impiantarvi i proprii amici (20). Tutta la storia sacra è uno scegliere e uno scartare "volontaristico" e persino "immotivato", non diverso dal divenire, o dalla dialettica, dello Spirito hegeliano. I teisti giudeo-cristiani trovano motivi di esultanza quando dicono che questo uomo, nella sua infinita piccolezza, può essere amato dal Dio trascendente e infinito; ma sono hegeliani quando vedono in Davide o in Costantino la "potenza di Dio a cavallo". I teisti insistono: questo amore di Dio rende l'uomo persona, Abramo è suo amico, Mosè parla con lui, è al fianco di Davide, assiste Clodoveo. Resta, però, un problema: se si è "persone" in ragione di una scelta rispetto ad altri, come potrà (tale scelta) estendersi a tutti? Come è possibile avere l'uguaglianza delle persone in un contesto teologico in cui c'è un Dio che "ha amato Giacobbe e odiato Esaù" ?



5. Il Messaggio

Il teista cristiano è costretto a vedere in Israele soltanto un'alba di umanesimo, essendovi la ragione irreparabilmente soverchiata dalla rivelazione. Il teista cristiano ripeterà con sussiego che Cristo è l'unico eletto di Dio, perché tutti gli altri eletti che sembrano essere itali rispetto ai non-eletti, sono ombre e figure. Con Cristo, tutti i "non eletti" scoprono di somigliare all'Unico Eletto; il quale assume forma di schiavo e dichiara che "far qualcosa" ai più piccoli è operare su di Lui. Poi il teista cristiano continua il suo ricamo teologico. Anche i discepoli di Cristo - dice - sono "stirpe eletta" e, mediante progressive "riduzioni" dialettiche, arriva ad affermare che la Chiesa è il nuovo popolo eletto cui viene affidata la "vigna" tolta ai vignaioli assassini. E così ricomincia il nuovo ciclo etnocentrico dello "stato nascente" . Bisognerà, dunque, riportare l'attenzione sulla novità del Messaggio e chiedersi perché Gesù Cristo è messo in croce. Due, infatti, sono i motivi:
1) perché contesta il sabato (che pure era dichiarato di origine divina), in quanto anteposto all'uomo;
2) perché dice Dio suo Padre, negando così che Dio sia "condottiero" di un popolo e quindi un Dio schierato e salvifico per "egemonia".

Con quelle due affermazioni Cristo annullerebbe tutta la "storia sacra" (intesa come tale) per riproporre l'aggancio con l'Assoluto originario; in cui si dichiara che l'amore totalizzante a Dio può essere fonte di pericolosi fanatismi se non è eo ipso "associato" all'amore verso il "prossimo", L'altro non è un "non-io" o un "io-altro"; ma un altro-io a parità di origine. Il messaggio di Cristo è "definitivo", e: non più falsificabile, solo se non viene riletto mediante categorie dualistiche e solo se si pone come medium in quo, e mai come medium quod, conosciamo la Verità (21), Solo perché tutti gli uomini sono uguali, solo perché non esistono ne popoli, ne razze, ne religioni eletti, arrivano i verdetti "escludenti" di un giudizio "metastorico". Un solo esempio: le "vergini" della parabola non sono "sagge" o "stol-te" per elezione) ma per responsabilità personale assoluta, quindi per colpa non per decreto divino. "Il singolo è più alto del genere - dirà Kierkegaard - perché è fatto a simiglianza di Dio; ma del Dio rivelato da Cristo e riscoperto oltre lo spessore di tutta la storia". Breve: o Cristo è venuto a liberare gli uomini dalle "religioni", che vedono nell'altro da se un nemico da convertire o da distruggere, o resta il fondatore di una "nuova religione" destinata a "deformare" realtà e storia sulla pelle della "persona".

Il concetto di persona è, allora, una responsabilità cristiana? Diciamo "responsabilità" e non "vanto" perché permangono delle contaminazioni relative al Messaggio e alla sua lettura (22).

Si ripete che prima della venuta di Cristo gli uomini erano valutati in quanto re, o ricchi, o poeti, o gladiatori; ma non in quanto uomini. Questa idea del valore dell'uomo perché uomo fu occasionalmente sostenuta da qualche filosofo; ma solo il messaggio cristiano proclamò che ogni uomo ha valore eterno. Pindaro, per es., dice: "Una degli uomini e degli Dei è la stirpe, e d'una madre viviamo" (Ode VI delle Nemee). Gilson prosegue: "Fra tutte le cose mirabili della natura - dice il poeta greco - non ne conosco nessuna mirabile quanto l'uomo. Dal cristianesimo in poi ciò si deve dire non più solo dell'uomo, ma della persona umana, giacche persona "significat id quod est perfectissimum in tota natura" (23). Tutto ciò è vero e lo riconosce lo stesso Hegel in un famoso passo della Enciclopedia delle scienze filosofiche: "I Greci e i Romani - scrive -sapevano soltanto che l'uomo è realmente libero mercé la nascita (come cittadino Ateniese, Spartano, ecc.) o mercé la forza del carattere e la cultura (lo schiavo, anche come schiavo e in catene, è libero ). Ma questa idea (di libertà) è venuta al mondo per opera del cristianesimo, pel quale l'individuo come tale ha valore infinito, ed essendo oggetto e scopo dell'amore di Dio, è destinato ad avere relazione assoluta con Dio come spirito e far che questo spirito dimori in lui. Cioè l'uomo è in se destinato alla somma libertà" (24).

Dilthey non è meno puntuale, pur nella sua reticenza: "Il fondo dogmatico del Cristianesimo primitivo - dice - è costituito anzitutto da un elemento universale, che sorse dal movimento religioso filosofico e letterario dell'Impeto: regno di Dio, affinità dell'uomo con Dio e reciprocamente, raffigurati nel rapporto di un padre verso i figli e reciprocamente; valore personale di ogni singolo uomo, dedotto dalla sua affinità con Dio, attestato dalla sua coscienza, dalla sua libertà e dalla sua speranza nell'immortalità; prossimità a Dio dei poveri, nesso provvidenziale di tutte le cose, nel quale anche la sofferenza e l'umiliazione sono della massima importanza ai fini della vita superiore, e ciò che è al di sotto di noi, richiede non minore rispetto e compassione, di ciò che è sopra di noi. Tutti questi motivi sono propri del movimento spirituale dell'Impero, nel quale andarono in frantumi le antiche forme nazionali e aristocratiche e, si determinò nell'umanità una nuova coscienza universale di se medesima. A ciò si aggiunse un elemento d'origine nazionale, secondo il quale Dio, il padrone, estenderà la sua signoria da Israele a tutta la terra, vi farà prevalere la sua Legge, e finalmente con l'azione del Messia vi instaurerà il suo Regno" (25).

Come si vede, sia Hegel che Dilthey, sono già elegantemente diffidenti sulle ombre che vagano minacciose attorno al Messaggio, ma le hanno avvistate con impeccabile misura. La controprova relativa alla "novità" del Messaggio cristiano l'abbiamo chiarissima da due autori "pagani": da Luciano di Samosata e da Plotino. Il primo, nel saggio Della morte di Peregrino, allude ironicamente ai cristiani con queste parole: "E poi il loro primo legislatore li persuade che sono tutti fratelli fra loro". Una tale dottrina, per Luciano, darebbe via libera ai profittatori, come nel caso esaminato nel saggio. Il secondo, nel suo trattato Contro gli gnostici: (II, 9, 9) bersaglia ancora i cristiani, perché "essi - dice - ritengono di chiamare fratelli anche i vilissimi, ma non gli astri del cielo ne l'anima del mondo".

Notiamo, a chiusura, che la specificità dell'insegnamento di Cristo al "secondo comandamento" consiste nel rapporto di "similitudine" che lo lega al "primo comandamento" e in forza del quale esso pure diventa "primo" (26); e riguarda tutti gli uomini in assoluto e non solo quelli appartenenti a un "gruppo". E tuttavia dobbiamo precisare - sia pure con amarezza - che la novità folgorante del Messaggio evangelico già trova una restrizione nelle deduzioni e nelle applicazioni di s. Paolo e proprio in merito al problema della schiavitù. Egli ipotizza "padroni buoni" e "schiavi buoni", ma non prevede l'annullamento dei due "sostantivi" dentro alla "chiesa"; e così accelera la trasformazione del kerygma in religione (27). Per questo motivo, crediamo, le definizioni teologiche dell'uomo non hanno mai assolutizzato la "persona", anche se l'hanno agganciata al "Dio cristiano". Quando, infatti, si entra nel sociale le sue definizioni specifiche riprendono la danza dell'incertezza - la danza delle maschere appunto - e lasciano intatta la geografia "storica" dei rapporti inter-umani (28).


6. Il cristianesimo

Merita una qualche attenzione la fondazione metafisica della persona in S. Tommaso, anche se egli, sul piano sociale, si allinea con l'etica della religione stabilita, dopo aver "santificato" il grande alleato Aristotele (29). E Aristotele - più di Platone - mette l'accento sulla realtà degli individui; eppure tutti e due i filosofi sono interessati all'universale. Per Aristotele, anzi, la molteplicità degli individui è il "surrogato" della unità della specie. In mancanza di una "umanità" la natura si accontenta degli uomini (moneta spicciola). Questi, infatti, passano; la specie persiste (30). S. Tommaso dice con Aristotele che non c'è scienza del particolare e sottintende "per noi" (ma non "per Dio"); perché Dio, per un creazionista e per un provvidenzialista, arriva fino alla "conoscenza" non solo dei generi e delle specie, ma anche degli "individui". Tutta la letteratura cristiana insisteva su questo, punto: Dio ci ha fatti per farci partecipare a una vita di sapienza e di contemplazione parziale quaggiù, totale lassù. Per Aristotele un individuo è un essere concreto, fatto di una forma analoga in tutti gli individui della stessa specie e di una materia che individualizza tale forma.

Gli individui, dunque, sono in vista della specie e come tali contano poco. Se si introduce una differenza individuale nella forma si cade nel nominalismo assoluto. Questo discorso di Aristotele influisce sul concetto di "schiavitù"? Forse no, perché la schiavitù non è giustificata da questa teoria sull'uomo, bensì da argomenti "sociologici" come vedremo. Un pensatore cristiano come Duns Scoto, per assicurare la sussistenza e la originalità dell'individuo, ha rischiato di distruggere l'unità della specie. A suo giudizio ogni forma umana, in quanto forma, è segnata da un carattere individuale. Per S. Tommaso non l'anima è l'uomo e neppure il corpo, ma il composto di tutti e due. Aristotele non sentiva la preoccupazione di fondare sullo "spirito" l'unità dell'individuo perché non concepiva lo "spirito" come lo concepiva il cristiano S. Tommaso. L'anima è una "forma individuale", sebbene non sia tale in quanto forma; ma conferendo alla materia la sua propria esistenza permette all'individuo di sussistere.

Per S. Tommaso e per Aristotele la materia esiste sempre in vista della forma e non viceversa. Occorrono materie diverse per permettere a forme diverse di costituire con esse soggetti concreti. S. Tommaso congiunge questo principio con l'idea di creazione e il quadro aristotelico resta intatto. C'è solo un accomodamento: ogni persona umana è anzitutto un individuo (le etimologie di S. Isidoro erano puntuali: Persona significa per-se-una), ma è molto più di un individuo; essa possiede una certa "dignità" (31) a differenza degli animali, per es., i quali sono individui non persone. La dignità, poi, più alta dell'uomo è la ragione ed ecco pronta la definizione di Boezio: "La Persona umana è la sostanza individuale di un essere razionale" {De duabus naturis, c. III) (32). Da qui discendono alcuni corollari: la persona agisce per se stessa e "non è agita" ed è, dunque, libera. L' anima è sostanza e principio di sostanzialità e quindi incorruttibile. S. Tommaso può riprendere, ora, per conto suo, il famoso principio aristotelico che vede l'individuo esistente solo in vista della specie e può dire che l'intenzione della natura tende più verso l'incorruttibile che verso la specie. Così gli individui rientrano nell'intenzione principale della natura e dell'Autore della natura. S. Tommaso esalta la personalità al di sopra di ogni altra realtà osservabile in natura. Ne estende la nozione a Dio stesso quando parla delle Persone divine (33).

E. Gilson dice che il personalismo cristiano si riallaccia alla "metafisica dell'Esodo", nel senso che noi siamo persone perché siamo le opere di una Persona. Ma osserva subito: "Non una parola in tutta la morale su questa nozione" e si domanda come mai il pensiero cristiano rinuncia a sfruttare il suo successo (34). Noi ci chiediamo: si tratta di un successo o di una organizzazione ideologica? Per Hans Urs Von Balthasar neanche S. Tommaso avrebbe visto nell'uomo la coscienza di essere persona; egli dice cose egregie sulla Persona di Cristo, ma tutto ciò è estensibile alla persona umana? Nella Summa contra Gentiles (35) partendo dalla eguaglianza nell'essere - che deriva dalla natura comune a tutti gli uomini - S. Tommaso conclude dicendo che l'uomo inclina naturalmente a un amore benevolo verso l'altro e che è, quindi, naturalmente "amico dell'uomo"; ma relativamente agli Ebrei non avrà nulla da obiettare a Gregorio IX che nel 1242 aveva fatto confiscare e bruciare il Talmud. Dirà anzi che gli Ebrei sono tollerati nei loro usi religiosi perché sono la prova della fede cristiana (S. theol. II-11, 10, 11) in quanto ne sono i bibliofori. E dirà ai Principi di costringerli a lavorare piuttosto che lasciarli vivere oziosamente arrichendosi con l'usura e frodando di conseguenza gli stessi Principi nelle loro entrate; come darà ai Principi licenza di disporre della proprietà degli Ebrei come della propria, lasciando loro solo il necessario alla sopravvivenza.

Per S. Tommaso, insomma, ne gli Ebrei del Vecchio Testamento ne quelli del Nuovo vengono considerati per se stessi, ma solo in rapporto al Cristianesimo e quindi non è possibile ipotizzare una fratellanza, perché, per averla è necessario che ognuno riconosca l'altro nella sua vera entità indipendente (36). In area cristiana il grido è pressoché unanime: se prendiamo in esame le concezioni dell'uomo fuori del cristianesimo ci si accorge che nessuno è stato capace di fondare la persona singolare inviolabile. Per R. Guardini, ad es., "è necessaria la Persona assoluta di Dio per la fondazione e la garanzia della realtà e della salvezza della persona". Per il pedagogista Louis Meylan "solo la convinzione di essere unito, come il tralcio alla vite, all'eterna Totalità e in essa ai propri fratelli, fa dell'individuo una persona" (37). Eppure il teismo personalista cristiano non ha dato saggio di possedere una antropologia sociale sostanzialmente diversa dal teismo non-cristiano o anche dal non-teismo tout-court (38). Bisognerà aspettare Kant per avere il punto "immanente" della consistenza della persona. "Gli esseri ragionevoli - egli dice nella Fondazione della Metafisica dei costumi - sono chiamati persone perché la loro natura li indica già come fini in se stessi" e quindi "non come fine da realizzarsi, ma come un fine esistente per sé (39).

In sede apologetica qualcuno continua a dire che da quando l'Illuminismo ha preteso di trasferire il fondamento della persona da Dio all'uomo, la storia che ne è conseguita ha dimostrato che il fondamento era fragile. Si può ammettere che un "fondamento" senza Fondamento produca disastri; ma quando si credeva nel Fondamento, le prime a essere disastrate erano proprio le persone. L'Illuminismo, prima che essere una opposizione, è un tentativo di risolvere le contraddizioni esistenti in un mondo pilotato, per eccesso, da Dio.


7. L'antropologia

E quali erano le contraddizioni ? Ne elenchiamo rapidamente alcune e a puro titolo esemplificativo: la società tripartita con tutte le conseguenze sociali a carico della persona, la tortura, la pena di morte, la discriminazione religiosa (40), l'istituto monarchico per diritto divino, la tratta dei negri, il colonialismo. Come si vede si tratta di scelte lesive della persona, operate in area teista-cristiana. Sulle tracce di G. Dilthey elenchiamo testi e prassi (41). "Secondo un terzo principio di diritto, per Grozio, si acquistano diritti personali anche mediante l'accoppiamento. Questo conferisce ai genitori i loro diritti sui figli. Il padre, se non ne è impedito dal diritto vigente nella sua città, può dare in pegno il proprio figlio e anche venderlo in caso di bisogno (voI. II, p. 47). "A Roma (Machiavelli) vide il terribile Sisto IV abbattere i grandi di Romagna e le bande brigantesche da loro protette coi mezzi pecuniari raccolti dal traffico delle grazie e dignità ecclesiastiche: e quindi Innocenzo VIII riempir nuovamente di briganti lo Stato della Chiesa concedendo il perdono per gli omicidi e ferite mortali mediante tasse determinate, di cui egli e suo figlio si spartivano il provento" (voI. I, p. 33). "Nell'origine della nostra religione egli (Machiavelli) non vedeva niente di soprannaturale, e non credeva che nelle vie della Chiesa si potesse conseguire in Italia un ordine morale della vita, uno sviluppo morale della persona" (voI. I, p. 35).

A giudizio di Dilthey la religiosità di Lutero implica una visione della libera dignità della persona ancor più intensa di quella che nasceva da movimenti mondani: "Essa soltanto rende la persona umana veramente libera da legami d'ogni specie (...) dandole la certezza fiduciosa d'esser guardata, protetta o riparata dalla sua unione con l'Invisibile" (ivi, p. 270). Viceversa la "religiosità cattolica" si fonda sul grande impulso che spinge l'uomo a staccarsi da se stesso. Essa, in certo modo "scioglie la sostanza della persona umana, trattenendo e dando valore soltanto a una parte di essa, all'imitazione di Cristo (...). In questa parte l'uomo si sente una cosa sola con la divinità" (ivi, p. 275).

Precisiamo che in area cristiana è anche il Protestantesimo; e se in alcuni singoli settori abbiamo la riscoperta della persona, in altri continua l'influsso veterotestamentario e classico. Lutero, per es., non ha pagine "personalistiche" quando parla degli Ebrei o quando sta con i Principi contro i contadini in nome della "obbedienza a Dio" o quando afferma che la "libertà spirituale" può accordarsi con la condizione di servitù e questa con la Scrittura. Nelle Istituzioni di Calvino il principio che informa e santifica ogni istante della vita non è l'imitazione di Cristo, ma la sudditanza verso Dio. "Movendo dalla onniefficienza di Dio - osserva ancora Dilthey - si dava il massimo valore religioso possibile alla personalità credente e si esprimeva la tensione estrema dell'attività etica della personalità medesima. Il dogma pericolosissimo, ma suscitatore potente di volontà, secondo cui la grazia non può perdersi, segna il punto estremo cui possa giungere nell'uomo la sicurezza di se stesso.

Rousseau espresse letterariamente il valore infinito del senso della vita, ma non faceva che trasportare nella vita mondana la coscienza calvinista dell'infinito valore trascendentale della persona credente" (ivi, p. 294). E tuttavia Sebastiano Castellio, rettore della Scuola di Ginevra, dichiarò che neppure una bestia feroce avrebbe destinati i propri figli al tormento e che seguendo 18 tesi di Calvino si doveva ammettere che una parte degli uomini fosse destinata a fare il male, come i lupi a sbranare le pecore. Calvino rispose indicando gli altri terribili enigmi della creazione ("Dio fa venire al mondo alcuni suoi figli ciechi, muti, zoppi, e che spinge altri alla follia"); ma Castellio insisté nell'affermare che l'idea etica di Dio esigeva che tutti i mali morali fossero fatti derivare dalla libertà dell'uomo e così apriva la via all'arminianismo (ivi, p. 306).

In area cattolica appare curiosa - attorno agli anni 1860-70 - la presa di posizione de La Civiltà Cattolica contro gli avversari della "pena di morte", i quali negavano che la società possa togliere all'uomo un bene extrasociale come la vita. La Civiltà Cattolica nega che la vita, l'integrità del corpo, la libertà morale, possano chiamarsi "beni extrasociali". La "inviolabilità della vita umana" è argomento ineluttabile contro la pena di morte per coloro che ammettono - precisa La Civi:tà Cattolica - il diritto sociale come risultato della somma dei diritti dei singoli associati (vedi Rousseau e Beccaria), ma non per quelli che ammettono la società come "creazione divina" e come creazione divina la potestà che la regge (così la pensa S. Paolo) (42). Ma gli avversari della pena di morte insistono: "La personalità umana è lo scopo del sociale diritto (...), ma la pena di morte la distrugge, facendola servire di mezzo all'attuazione del diritto (...), dunque la pena di morte non è compresa nei diritti sociali".

La Civiltà Cattolica replica: "L'autorità civile ha per scopo e misura non il bene individuale ma il comune". Invano Kant aveva detto: "Agisci in modo da trattare l'umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre come fine e non mai come mezzo". La Civiltà Cattolica insiste: "L'umana personalità che è un bene finito, passeggero, destinato a perire per rinascere nobilitato in un novello ordine di cose, non può essere il termine, la regola e la misura del giusto e dell'ingiusto, del diritto individuale e sociale" e deduce che "la morte (pena di morte) non solo non è puro male dell'individuo o mezzo al mantenimento d'un ordine ch'egli abbandona, ma atto di espiazione con la quale il morente, con Dio si riconcilia e passa a vita immortale" (43).

È altresì curioso osservare come il teismo de La Civiltà Cattolica dei nostri giorni (5 maggio 1984) si contrapponga all'ateismo visto come "radicale anti"Umanesimo". Il tema del rapporto Dio-uomo ritorna con nervosa insistenza, quasi a riparare antichi eccessi dialettici. "No - si dice - l'uomo non è una cosa nelle mani di Dio, né Dio un padrone dell'uomo". Dio non è neanche il "fabbricatore dell'uomo", ma è piuttosto il suo creatore; e la creazione non fa parte della categoria dell'azione bensì della relazione. Ciò spiega la possibilità metafisica di una creazione ab aeterno, che escluda - traduciamo noi - il divenire in Dio, ma non la "dipendenza" del creato da lui (nell'essere). Perciò, "se la natura dell'uomo è di essere persona intelligente e libera, la creazione la fa essere persona". L'uomo, insomma, non perde la libertà per il fatto di essere creato: anzi appartiene a se stesso. E ritorna il linguaggio della prima letteratura cristiana: "L'appartenenza a Dio fonda nell'uomo l'appartenenza a se stesso e solo a se stesso, e quindi la sua dignità ".

La Civiltà Cattolica cita anche il Concilio per dire che "ha ragione", come se i Concili anteriori avessero, invece, declassato la dignità dell'uomo, specie se fuori della ortodossia. E poi ritorna il martellamento teorico: l'uomo è uomo in quanto immagine di Dio; perciò il suo "essere-a-Dio" fonda il suo "essere-uomo"; perciò "in virtù di tale somiglianza con Dio, l'uomo è persona"; perciò se l'uomo "è il fine di tutte le cose create non è però fine a se stesso, ma ha Dio come fine ultimo e supremo". Breve: Dio ha creato l'uomo non per avere un servo, ma un figlio; non per propria utilità, ma per la felicità dell'uomo. Tutte queste "verità" erano state dette dalla teologia dei Padri greci e latini; ma da esse era poi scaturita un'antropologia che ha spinto il pensiero umano a trovare qualche altro fondamento solido "fuori" di Dio per salvare la persona dalle unghie di un Dio troppo invadente, almeno nella maschera prestatagli dai suoi "costruttori" o dai suoi "rappresentanti".

Nell'ateismo moderno, l'umanesimo, e cioè l'affermazione che l'uomo è il valore supremo e assoluto, postula come sua condizione la negazione di Dio; anche se il famoso asserto kantiano riguarderebbe piuttosto la chiusura del rubinetto metafisico di marca teista - e la parallela introduzione della via "pratica" - per avere una definizione dell'uomo non più fluttuante sulle onde capricciose della "religio" totalizzante e omnicomprensiva. Bakunin dirà che il cristianesimo svuota e impoverisce l'uomo a profitti della divinità. Lutero, infatti, aveva definito la ragione una "prostituta" e aveva dichiarato che Dio è tutto, l'uomo è nulla. Bakunin replica rovesciando la frase di Voltaire: "Se Dio esistesse bisognerebbe abolirlo", perché, priva l'uomo della libertà. Per Marx l'uomo è un Gattungswesen, e cioè "un essere che appartiene a una specie" e ciò lo libererebbe dall'individualismo. Poi "l'uomo per quanto sia individuo particolare (...) è parimenti la totalità" e, in un certo senso, lo si assolutizza. Successivamente l'individuo è ridimensionato rispetto all'ordine sociale. Non solo, ma rischia di ridursi a sola realtà biologica quando Marx concepisce la morte come una dura vittoria della specie sull'individuo. La vita, quindi, non deve concepirsi come "piagnisteo", ma come dono generoso fatto alla vita totale e cioè alla società socialista. Come si vede la persona ha perduto Dio come Padrone, ma è passata sotto un' altra" totalità " e quindi continua a fluttuare (44) .

Dalla vetrina delle curiosità, infine, estraiamo una lettera scritta dal domenicano frà Tommaso Vasco a Cesare Beccaria per proporgli di risolvere una obiezione relativa all'abolizione della pena di morte sul tema specifico della "esemplarità". "Mi venne in pensiero - dice il pio seguace di S. Tommaso - che si potrebbero i rei di più gravi delitti condannare a morte e considerarli in appresso come morti effettivamente, di modo che sia tolto loro la speranza della grazia in ogni caso, ancorché potessero provare in appresso evidentemente la loro innocenza, e differire di dar loro la morte (impiegandoli intanto in utili, duri e visibili servigi) sinché l'utilità pubblica richiegga la loro morte, come sarebbe per la sezione di un cadavere sano ad uso delli anatomici, per tentativi di pericolose medicine, ecc." (45). Come si vede il sostegno teista-tomista della fondazione della persona non ha proibito a fra' Tommaso Vasco di ridurre l'uomo a mezzo prima e a cosa poi, dopo avergli tolto lo status giuridico e ontologico di essere pensante e libero.



8. Le istituzioni

Recentemente La Civiltà Cattolica (2 marzo 1985) ha pubblicato le Tesi della Commissione Teologica Internazionale sulla dignità e i diritti della persona umana. Il solo difetto del documento è quello di essere paludato e di porsi come mosca cocchiera su di una storia riletta (e interpretata) secondo ciò che si vorrebbe essere stati anziché mostrare ciò che si è stati per aver tradito il Messaggio. Sottolineiamo alcuni passaggi. "Sotto certi aspetti - si dice - la libertà religiosa può considerarsi come il fondamento d'ogni altro diritto, benché altre opinioni attribuiscano tale proprietà all'eguaglianza di tutti gli uomini". È da credere che l'uomo sia prima della sua religione! Sta di fatto che la "religione" lo ha definito contraddittoriamente. Unico punto discutibile è, quindi, la posizione di Cristo relativamente alla "religione". Ne ha dichiarato la "crisi" o ne ha fondato una "nuova"? La "prospettiva biblica" - secondo il documento - dice che Dio rivela la sua "giustizia", ma esige l'obbedienza ai suoi precetti. In pratica: l'osservanza della sua legge include il rispetto per i diritti degli altri uomini, per ciò che riguarda la vita, ecc.

Eppure sappiamo che il termine "prossimo" nel V T equivale a "compatriota", "membro del popolo" e non ha valore assoluto. Si dice anche che il Vangelo dà "un nuovo fondamento religioso (...) alla dignità e ai diritti della persona", ma non si dice che quel fondamento non ha prodotto "frutti" apprezzabili nel corso dei secoli e per colpa degli stessi che lo hanno "pedagogizzato". Passando poi alle proposte e speranze si sottolineano i valori presenti nelle tendenze attuali del "personalismo comunitario" opposto al "naturalismo materialista" e all' "esistenzialismo ateo"; e si dice di ricercare il fondamento di questo personalismo nella "dottrina di S. Tommaso", come se il fondamento evangelico non fosse più chiaro ed esplicito di quello dei filosofi troppo compromessi con la storia (46).



9. Il mondo classico

Dopo aver visto la persona in rapporto al teismo biblico e cristiano, vediamola in rapporto al teismo della ragione e alla ragione tout-court (47). Senofane contesta le rappresentazioni antropomorfiche di Dio. "Omero ed Esiodo - egli dice - hanno dotato gli Dei di tutte le caratteristiche umane più negative e condannabili (48). Se i bovini, i cavalli e i leoni, avessero le mani e potessero con esse produrre opere d'arte (...) i cavalli raffigurerebbero i loro Dei come cavalli (...) e darebbero loro corpi, come ogni specie ha i propri" (fr. 11 e 15). Ci si domanda se questo primo "partigiano dell'uno" - come lo chiama Aristotele - sia anche il primo campione della persona umana. In certo senso sì, perché, pur non distinguendo Dio dalla natura, è critico nei confronti delle "proiezioni" trascendenti 1 'umano (avvisterebbe cioè la contraddizione). E d'altra parte anche coloro che distinguevano Dio dalla natura, sia pure pensandolo come creatore, ne hanno fatto un "Dio degli eserciti" (il galoppante) o ne hanno inteso in quella "forma" le rivelazioni.

Eraclito pensa che il Logos eterno governi il mondo - gli uomini "vivono come se possedessero un pensiero particolare, mentre il Logos è comune a tutti" - ma, poi riteneva che la facoltà di pensare razionalmente fosse una caratteristica spiccatamente ellenica. "Occhi e orecchi sono testimoni deboli per un uomo se egli ha l'animo di un barbaro" (fr. 107). Il barbaro avrebbe uno "status umano" diminuito. Non solo, ma Eraclito riteneva che Polemos fosse padre di tutte le cose e di tutto re: "gli uni manifesta come Dei, gli altri invece come uomini; gli uni fa esistere come schiavi, gli altri invece come liberi" (49). Come si vede gli individui sono espressioni che rivelano una pluralità nascosta e sotto questo rispetto sono "maschere" .

Il caso di Aristotele merita una particolare attenzione. Egli avvista il "teorema di creazione", ma non approda a un Dio-Persona. Approda a un "Atto" che toglie la contraddizione del "divenire" senza intervenirvi con assoluta padronanza. Tolta la contraddizione nel mondo che si vede, mediante un rimando al mondo che sta "al di là della fisica", Aristotele si applica all'analisi di ciò che cade sotto il controllo scientifico. L 'uomo, per es., è sì, un animale, ma si distingue dagli altri animali per la "razionalità"; e tra le attività della ragione ve n'è una che è voluta per se stessa perché non è strumentale a null'altro e si chiama "contemplazione". Se l'uomo non è capace di vita teoretica non è uomo completo ed è giusto che sia schiavo, perché "partecipa della umana intelligenza sino allo stadio della percezione immediata" (Pol. 1254 b). Inoltre, "la natura distingue la femmina e il servo perché essa non fa nulla di così misero come il coltello di Delfo" (che serve a tutti gli usi).

Aristotele addossa il dato - di origine storica - con il dato naturale di origine metastorica e si concilia così con la civiltà greca (50). Egli legge la storia con la stessa sicurezza con cui legge la natura e poiché la persona non è un dato, viene ridotta a dato e inserita in un quadro aprioristico (la famiglia greca) che comporta la presenza dello schiavo. Non a caso il filosofo pensava che la polis fosse anteriore all'individuo, e non a caso gli aristotelici combatteranno i cinici, gli stoici e gli epicurei che pensavano l'individuo indipendente-mente dai legami sociali. Egli cioè vorrebbe portare tutti gli uomini dentro alla polis greca perché la considera perfetta nella sua struttura. È nostra opinione che Aristotele non derivi il concetto di schiavitù dal concetto di uomo, ma dall'ordinamento sociale, il quale a sua volta è dedotto non da una indagine metafisica sulla natura umana, ma indotto da uno Stato di fatto. Non è "evidente" che gli schiavi (di fatto) siano cose. Tanto è vero che nell'Etica Nicomachea (1161b) Aristotele ammette che il servo è "uno strumento dotato di anima" e che "in quanto schiavo non v'è amicizia verso di lui (da parte del padrone), ma può esservene in quanto uomo". Se non è evidente che gli schiavi siano cose, subiscono una, prima curvatura (o riduzione) nel concetto di "barbaro", il quale concetto deriva da una "tradizione culturale" non da una verifica "metafisica". Aristotele cita, infatti, i poeti. "È conveniente - dicono - che gli Elleni comandino ai barbari" perché soltanto essi posseggono "coraggio" (ciò che manca agli asiatici) e "intelligenza", (ciò che manca agli europei nordici}. Come si vede la schiavitù diventa ," naturale " in forza di una serie di presupposti etnocentrici, acriticamente elevati a "visione del mondo". Che ci siano schiavi, poi, non è "contraddittorio" ne nel fatto ne nel pensiero, perché, per un greco, la schiavitù è coessenziale alla famiglia e alla polis e, per questa via, appartiene alla "natura delle cose". Si prenderà coscienza della schiavitù come "contraddizione" solo quando muterà il concetto di uomo, di società, di famiglia, di natura; ma ciò avverrà molto tardi e la calibrazione dei concetti non è ancora terminata (51).



10. Il theion

Per Socrate l'uomo assomiglia ad opera di "provvidenza". Le sue strutture - a partire dalle stesse mani -non possono attribuirsi al caso; ma rimandano a un theion o daimonion che dà vita alle cose "più durature e sagge degli uomini". Il divino - io theion - vede insieme tutte le cose e dappertutto è presente e si occupa di tutto. Non solo; si rivela agli uomini e a Socrate con i suoi "sogni". Il richiamo a questa eticità profonda isprerà il bisogno di una indagine relativa alla personalità. E personalità esemplari, infatti, furono quelle di Eracle o di Ciro perché si sono costruite mediante la conoscenza di se ("per filosofia") e non erano tali "per natura". La natura produce delle "possibilità", l'educazione l'eguaglianza. Tucidide dice che Temistocle "mostrò la forza della natura" e che si rivelò insigne "per forza di natura" e "per brevità di studio". Socrate riteneva assurdo che un uomo politico potesse essere grande solo "per natura" e quasi per generazione spontanea e accidentale. Non esistono uomini d'acciaio, o superuomini, ma solo di carne come tutti (52). Socrate condanna - a differenza di Tucidide - la tirannide senza eccezioni; ne è facile a celebrare personalità storiche che hanno resa grande la città costruendo porti, cantieri, mura come Temistocle, Cimone, Pericle. Costoro, anzi, hanno contribuito alla "diseducazione" della città (53) .

Tucidide respinge la dottrina, della physis che fa tutti gli uomini uguali. Sì, è vero, gli uomini agiscono conforme alla natura umana, ma differiscono anche talmente gli uni dagli altri che non si può - da quanto essi fanno - dedurre quello che dovrebbero fare. E d'altra parte, sono sufficientemente "somiglianti" per rendere probabile che i loro comportamenti siano più o meno omogenei a quelli conosciuti storicamente, specie se questi uomini sono "affratellati" nella prassi e "uniti" nella polis. Tucidide avanza una triste quanto facile profezia: finché la natura umana rimane quella che è, dobbiamo attenderci "agitazioni" nella polis. E pur non proponendosi di cambiare la natura umana (54) crede che si possa far qualcosa per migliorare la società e ciò perché non esiste ananke alcuna che trascini gli uomini verso la loro sorte.

E tuttavia Erodoto (Hist. III, 38) aveva già osservato che se a tutti gli uomini si facesse la proposta di scegliere "i migliori nomoi (consuetudini) del mondo" tutti, dopo essersi guardati attorno, sceglierebbero i propri. E, a titolo di conferma, porta il caso del re Dario che convoca alla sua presenza i Greci della corte e i membri di una tribù indiana, per confrontarli sul tema della sorte da riservare ai genitori morti. I secondi dicono che era loro costume mangiarli e alzano grida di orrore alla sola idea di doverli bruciare; i primi inorridiscono, invece, all'idea di doverli mangiare.

Tutte e due sono pratiche fissate da "nomos", il quale -come dice Pindaro - è "re" di tutte le cose. Il problema consiste nel sapere se questo "dato" denota una diversità nella natura umana o se la diversità dei nomoi è puro prodotto "ambientale". Nel primo caso è irreformabile, nel secondo caso può evolvere. In area biblica già il profeta Geremia sente il dramma del pluralismo etico dovuto alle "differenziazioni antropologiche" e immagina che Dio arriverà a porre la sua legge nell'animo degli uomini - scrivendola nei loro cuori - per renderla "uguale" in tutti (55). Purtroppo - o per nostra fortuna - Dio non ha scritto nulla di "oggettivo" ne nel cuore ne nell'intelletto. Gli unici dati uguali (o meglio simili) per tutti sono l'intelletto e la struttura fisica (56). La stessa idea dell'essere non è aprioristicamente incisa nell'intelletto. Ce la formiamo o emerge in concomitanza con la (temporalità cosciente) e, a quel livello, sembra uguale per tutti perché tutti ne facciamo uso indiscusso. È vano cercare un punto di riferimento "oggettivo" nelle verità morali (valori), come se queste fossero delle "ciliege mature"; dobbiamo costruirli, scoprendoli come ideali da raggiungere. Sotto un certo profilo, somigliano alle "verità scientifiche": mentre queste si raggiungono a colpi di falsificazione, le verità morali; si raggiungono a colpi di risvegli dai sonni dogmatici e sotto il pungolo della "contraddizione" da togliere (57). Da qui il dualismo fra ciò che siamo e ciò che dobbiamo diventare, posto dalla paideia socratica e dalla metànoia evangelica. A quale condizione il frumento può moltiplicarsi e diventare pane? A condizione di rinunciare a ciò che è per diventare ciò che non è. E il pane è già un punto lontano e diverso dal dato iniziale che è il puro chicco di frumento.



11.Logos

Isocrate, nel famoso Panegirico, pur dicendo che gli Ateniesi hanno diritto alla "supremazia", ammette che essa deve essere un fatto di civiltà e un elemento di sviluppo pratico della mente umana. Crescita della persona e crescita sociale sono effetti della paideia. La forma arcaica di tale ordine era fondata sul presupposto dell'intervento di forze trascendenti nella vita umana. Forze sovrumane stanno a fondamento della supremazia aristocratica e così della ineguale distribuzione delle ricchezze (58). Ora, la comunità Ellenica non ha valore in quanto fatto "genetico", ma in quanto fatto di cultura. Non importa essere nato greco, perché "greco" non indica una "stirpe" ma una formazione intellettuale. Sono Greci "quelli che hanno in comune con noi lo sviluppo dello spirito, anziché la stessa natura". Isocrate ammette i fatti mitologici come le gesta di Eracle e di Teseo, non nega la trascendenza ne gli interventi divini nelle vicende umane; ma crede piuttosto in un progressivo sviluppo dell'umanità. La ragione (logos) riuscirà gradualmente a liberare gli uomini dalla necessità di dover sottostare al "volere degli Dei" e di ricorrere alloro aiuto. Gli interventi divini nella storia più antica degli uomini non erano "favole" e neanche "simboli"; ma una fase necessaria alla evoluzione umana. Le divinità non cessano di essere tali - Isocrate è laico, ma non ateo - ma gli uomini non ne hanno più bisogno come prima perché non sono più bambini. L'uomo, anzi, si avvicina, tanto più agli Dei quanto più è grande la: sua possibilità di rendersi utile ai suoi simili, beneficandoli con la sua superiorità mentale. Come si vede Isocrate privilegia la "ragione" sulla "religione" tramandata; mentre Socrate - s'è visto - contesta la "religione" stabilita appellandosi a un Logos "fuori sistema " (59).

Lo schema si ripeterà, in epoca cristiana, nel momento in cui la caduta del cristianesimo in "religione" spingerà, di nuovo, la ragione alla ricerca dei Valori.



12. Gli umanesimi

L 'uomo moderno, dopo il Rinascimento, ha cominciato a rifiutare Dio in nome, appunto, della "dignità umana". Prendiamo, a titolo di esempio, Benedetto Spinoza. Nei Cogitata metaphysica egli dice che non ignora il termine personalità usato dai teologi per indicare la natura divina; ma pure non riesce a conoscerne il significato. Il divenire dell'uomo non è che il puro di spiegarsi di energie interiori, essendo la "personalità umana" uno sviluppo naturale più che il risultato di un processo educativo. A suo giudizio l'utilitarismo religioso induce gli uomini a ritenere che Dio ha fatto tutto per loro ed essi lo onorano al solo scopo di sentirsi preferiti agli altri, facendo così esplodere cupidigie, violenze, discriminazioni. L'uomo non è uno "Stato nello Stato", ma una piccolissima parte dell'ordine eterno di tutta la natura. Siamo nelle mani di Dio come la creta nelle mani del vasaio e torna, per questa via, il teismo veterotestamentario rielaborato da S. Paolo (Rm. 9,20). Curioso il fatto che la stessa immagine (del vasaio) venga utilizzata dai teisti classici che pensano Dio come Persona e dal "teista" Spinoza che pensa Dio geometricamente unito alla natura (60).

Come si vede l'uomo vacilla nella sua autonomia dentro a ogni specie di "teismo" e appare come una "maschera" o "manifestazione di Dio", proveniente da territorio alieno. Sui due fronti - laddove essi si formano - si proclama la crisi dell'altra parte e si propone la propria "salvezza". Spinoza respinge tutti i principi della morale ebraico-cristiana e, nello stesso tempo, manifesta una sete ardente di "giustizia".

Anche il pensiero laico e illumini sta ha le sue rutilanti affermazioni di principio sulla grandezza dell'uomo; e tuttavia la "persona" finisce sempre per oscillare dentro a definizioni più ampie. Cosi, per es., Fichte dice che "la libera azione dell'io e la libera risposta del tu non possono essere separate, ma sono parti integranti di un solo tutto"; e tuttavia, nei Discorsi alla Nazione tedesca, una strana forma di etnocentrismo accentua il dualismo fra ciò che è tedesco e ciò che non lo è. Hegel dirà che "nell'amicizia, nell'amore, abbandono la mia personalità astratta e così la riguadagno concreta "; e poi dirà anche che la guerra è la "1evatrice della storia" e che l'Islam è esemplificativo della consumazione gioiosa dell'individuo nel rogo del tutto: (guerra santa). Franz von Baader riprende la libertà di analisi e dirà che l'io si nutre del tu e che in fondo tutti gli uomini sono antropofagi. Il che significa falsificare la massima kantiana e affermare che l'altro è uno strumento della propria buona salute, cosi come lo è il cibo che entra nello stomaco.
Si dice che su gli umanesimi atei non è possibile fondare un rispetto dei diritti fondamentali per, tutti. Non, è possibile, per es., fondare una Carta delle Nazioni Unite, una Costituzione democratica e cosi via; ma non si dice che quei diritti e quelle carte non esistevano nemmeno laddove fiorivano le teocrazie teiste; ne si dice che sono conquiste di umanesimi delle più varie estrazioni (61).

Si dice che una mentalità comune unisce tutti gli Europei e cioè il rispetto dell'uomo, della sua dignità, della sua libertà, della sua attività. D'accordo, ma non dimentichiamo che le tre famose parole della Rivoluzione Francese non riguardavano il "quarto stato" (o proletariato) e che il "rispetto della persona" attuato dalla nostra epoca sarà visto come barbarie fra qualche secolo. Ai teisti, poi, che presumono di conoscere il fondamento della persona, ricordiamo che il sacerdote e il levita della parabola erano legati sì a una coscienza sacrale del mondo e dell'uomo, eppure lasciarono morire il ferito sulla strada per salvare la purità rituale. Ai laicisti di ogni estrazione, invece, ricordiamo che il "giudizio della storia" non riguarderà la "scelta" del laicismo o il rifiuto della dimensione sacrale della esistenza, ma solo l'amore verso l'altro ("avevo fame") e dunque il rifiuto di ridurlo a "mezzo" della propria sazietà. Tutta la civiltà, infatti, è avvelenata dalla "strumentalizzazione" dell'uomo (dell'altro) a causa dei "bisogni".


13. Le responsabilità

Chi crede in un Dio-Persona finisce per concedergli troppe carte in bianco e, spesso, lo investe di responsabilità galeotte. Chi non vi crede e restringe sull'uomo l'orizzonte delle responsabilità etiche finisce quasi sempre per concedergli, di nuovo troppe carte in bianco. Altro è il movimento del pensiero in assedio attorno alla "realtà" e l'altro quello del pensiero in esplorazione su se stesso per chiarire la propria posizione nel cosmo e, soprattutto, nella storia dove esistono altri "pensanti". In questo secondo movimento non si è mai sicuri di eliminare il "disturbo" di cui parla la meccanica quantistica, perché l'osservatore ha già modificato l'osservato e lunga e faticosa e incerta si presenta la strada della necessaria "falsificazione". E la stessa "fede", di cui si carica una certa serie di pensanti, rischia di aggravare ulteriormente il peso del disturbo "se quella "fede" non si tramuta eQ ipso in una metànoia. Il sincero teista, proprio perché ha scoperto un "di più" si guarda dal proporlo come "verità oggettiva" e si guarda altresì dall'utilizzarlo per finalità storiche di carattere etnocentrico; lo annuncia, semmai, come metro di falsificazione a coloro che di quel "di più" sono privi, eppure avvertono alienazioni per ogni dove. Il "di più", insomma, è per il sincero teista ciò che è per il filosofo il principio di non-contraddizione. Infatti il più alto grido del teista per antonomasia si riassume in queste parole, riferite ai falsi teisti: "Vi uccideranno credendo di rendere gloria a Dio". Dove resta fissato che la persona sarà sempre travolta da una concezione totalizzante di Dio se il radicarla in un Dio-Persona non significa trasformarla subito in un "fine". Ecco perché la prassi ad extra del sincero teista è una sola: "Amatevi come io vi ho amati" e cioè senza "profitto" alcuno. Il personalismo cristiano o presenta questo collaudo o è, da capo, una dotta ideologia.

Una famosa favola di La Fontaine racconta che la Volpe, con gesto "galante" (62), invitò a pranzo la Cicogna e presentò un brodetto chiaro dentro a un piatto dalla larga superficie. La Cicogna, avendo lungo il becco, non poté sorbire nulla per estinguere la fame; mentre lei, la Volpe, lappa tutto in un istante. Poco dopo arriva la vendetta. La Cicogna offre il pranzo: è di carne succulenta, ma lo serve in un vaso dal lungo collo e di stretta imboccatura. Il suo becco fa ricca pescagione, ma il muso della Volpe non arriva al cibo profumato. Tornò, l'astuta, digiuna e piena di vergogna a casa sua. "Scrivo per voi ingannatori - esclama La Fontane - aspettatevi pan per focaccia". È poco per chi crede nella pedagogia "preventiva". Occorre domandarsi perché ci sono gli "ingannatori" e si scoprirà che ci sono perché non è gratuita l'accettazione dell'altro come un "alter ego". Da qui la continua tentazione di utilizzarlo come un "mezzo". La Volpe fa all'altro ciò che vorrebbe fosse fatto a se stessa; ma omette di non fare all'altro ciò che non vorrebbe fosse fatto a se stessa. Da qui la caduta - o l'impossibile costruzione - della fratellanza. La Cicogna dà una "lezione" alla VoLpe, ma non le insegna questa verità. Da qui il dubbio sulla loro capacità di riconoscersi mai più "persone" e quindi "sorelle".



Padre Aldo Bergamaschi

Note


1) Cfr. K. Popper, Scienza e filosofia, Einaudi, Torino, 1969, p. 51.

2) Ci siamo accorti che l'oro è "oggettivamente" il "migliore" dei metalli e che il frumento è, tra le erbe, il "migliore" commestibile. Ma quando l'uomo ha incontrato l' altro uomo ha stentato - e l'incertezza permane - a riconoscere in lui un proprio simile e ne ha tentato la cattura o la distruzione. É cominciata, insomma, la fatica per riconoscersi uguali e la fatica è lungi dall'essere conclusa.

3) Cfr. Chi ti ha fatto uomo?, in Mistero e senso della persona, "Communio", 1982 (marzo-giugno), p. 75.

4) "La mèta del personalismo è l'universale nell'uomo o nell'umanità - afferma Lacroix - il che non appartiene a nessuna ideologia".

5) Come aveva fatto, per es., il P. Agostino Gemelli nel primo editoriale di "Vita e Pensiero" (cfr. sul tema P. Mazzolari, Diario/1, Dehoniane, Bologna, 1974, p. 421 sgg.).

6 Husserl si occupa della fondazione dell'altro nella V meditazione cartesiana. Sul tema cfr. V. Fagone, La conoscenza dell'altro, "La Civiltà Cattolica" 1965, III, p. 209 sgg.

7) Nella Fenomenologia dello spirito Hegel dice che "ogni individuo deve avere di mira la morte dell'altro, quando arrischia la propria vita, perché per lui l'altro non vale più come lui stesso; la sua essenza gli si presenta come un Altro; esso è fuori di se e deve togliere il suo esser fuori-di-se". Lo deve ridurre a una modificazione del proprio io.

8) G. Zamboni - l'Husserl italiano - fonda la realtà delle "altre persone" con un procedimento analogo a quello usato per l'affermazione delle sostanze materiali; applicando cioè il principio di causa al fatto che noi intendiamo il significato delle parole o segni convenzionali che ci provengono da quelle "superfici qualificate" che poi interpretiamo come uomini (Cfr. G. Bontadini, Gnoseologia e metafisica nel pensiero di G. Zamboni, in Studi sul pensiero di G. Zamboni, Marzorati, Milano, 1957, p. 600). Per quanto attiene alla fondazione dell'altro in G. Zamboni citiamo G. Giulietti: "Quando noi dai segnali che ci vengono da una figura simile alla nostra (specialmente dall'uso del linguaggio comune, che noi intendiamo, e che ci rivela altresì giudizi e pensieri differenti dai nostri), comprendiamo che esiste altro da noi un soggetto pensante, parlante, volente, per essenza specifica eguale a noi, comprendiamo altresì che è legittima l'applicazione ad esso del concetto di essere formato sulla nostra unica esperienza dell'essere: così attribuiamo ­ fondatamente - la sostanzialità alle realtà psichiche altre dalla nostra" (cfr. Zamboni o della filosofia come sapere rigoroso, Studium, Roma, 1983, p. 57). Sempre relativamente a questo tema il "cattolico Zamboni" nega che il fondamento "della obbligatorietà morale possa essere riposto nella volontà divina". G. Giulietti si chiede se ciò sia errore o eresia e risponde che si tratta, invece, di "chiara consapevolezza del pericolo che, seguendo alla lettera l'ultima fondazione criticata, si faccia di Dio un despota arbitrario. Dio ha fatto qualcosa di meglio che presentarsi come l' Autorità imperante: ci ha creato tali da poter intendere, col lume naturale che egli ci ha dato, il nostro dovere. Ciò è anche testimoniato dal fatto che il sentimento del dovere è sentito anche da chi non crede in Dio, e dall'altro fatto che i credenti stessi non hanno bisogno di pensare a Dio per sentire l'obbligo di rispettare la persona umana, in se stessi e negli altri. Il rispetto che ispirano la persona umana e, supremamente, la persona divina, e non il comando di una volontà, si tratti pure della volontà divina, è la vera fonte del sentimento del dovere, della obbligatorietà morale. Si noti che, nella pur formalissima etica kantiana, c'è una massima concreta, non soltanto formale, ed è proprio la seconda formula dell'imperativo categorico, la quale indica nella persona umana ciò che merita di essere trattato come un fine e mai soltanto come un mezzo ("tratta sempre l'umanità, in te come negli altri") (ivi, p. 75). Rievocando il suo caso la famosa Elena Keller parla di una "creazione dell'acqua e della mamma", ma mentre l'acqua è solo "conosciuta", la mamma è un essere che a sua volta conosce, e con lei sente che già erano in due nello stesso mondo: l'altro dà un segnale che è uguale al mio. Elena Keller impiega due anni a capire che i suoi cani non capivano ciò che ella diceva loro. E tuttavia afferma di essere "disposta a credere a quei filosofi che dichiarano che noi conosciamo soltanto le nostre sensazioni e le nostre idee" (cfr. Il mondo in cui viviamo, Torino, 1928).

9) Stranamente Sartre è critico nei confronti di Husserl. "Per aver ridotto l'essere ad una serie di significati, il solo legame che egli abbia potuto stabilire tra il mio essere e quello dell'altro è quello della conoscenza: non saprebbe quindi sfuggire, non meno di Kant, al solipsismo" (L'Etre et le neant, Paris, 1943, p. 291). Per Sartre l'esistenza dell'altro non potrà mai essere provata fìnché l'altro è un "per se" inattingibile; ma non può essere neppure negata perché è data col mio stesso essere ("la persona è presente alla coscienza in quanto è oggetto per l'altro"). La mia libertà è tuttavia limitata dall'insorgere di una nuova libertà e anche quando forma il "gruppo" si forma in opposizione ad altri gruppi. Alla fine "l'Inferno sono gli altri", dirà un personaggio in Huis'clos (Paris, 1940, p. 122). Curioso, altresì, che Sartre venga a trovarsi in conflitto con l'amico e commilitone Genet, quando occorre decidere se stare con Israele o con i Palestinesi. Tutti e due sono antiborghesi, tutti e due sono convinti che la storia "non ha senso" perché solo la rivoluzione può dargliene uno; eppure su questo tema si separano. Sartre è schierato con le "anime belle" e Genet con i terroristi ". Si sospendeva, così, il giudizio della storia, come della giustizia e della rivoluzione (cfr., sul problema, J. Daniel, L 'epoca del disincanto, "Mondoperaio", 1985, genn.-febb., p. 115 sgg.).

10) Cfr. Le Personnalisme, in Oeuvres, III, Seuil, Paris, 1962, p. 487.

11) Cfr. L. Malusa, Giudizio morale e giudizio storico nel personalismo di E. Mounier, in La fondazione del giudizio morale, a cura di C.Giacon, Antenore, Padova, 1968, p. 116.

12) I personalisti, in genere, privilegiano la "persona" come alto trampolino già di per se vicino al "cielo". In ciò il presupposto fìdeistico. Per arrivare in "cielo" esiste solo il percorso della mediazione metafisica. E tale mediazione si compie o non si compie. Se si compie tanto vale partire dal "filo d'erba" quanto dalla "persona". Non esistono esseri privilegiati che "dimostrino" Dio al di fuori di quella mediazione. Lo stesso "teorema di creazione" non è attestato dalla persona in quanto persona, ma semmai, dalla persona investita, in quanto divenire, dal principio di non-contraddizione. Charles-Bemard Renouvier, che Mounier cita come precursore del Personalismo, cerca di mostrare che il mondo, in forza della legge del "numero determinato", deve avere un "principio"; e come personalista spiega questo principio con l'atto di un Dio, che tuttavia - data la esistenza del Male - non deve essere pensato come assoluto o onnipotente. Sul Personalismo come "religione laica" cfr., dello stesso Renouvier, Les derniers entretiens, Vrin, Paris, 1930, p. 105.

13) Cfr. L. Malusa, Libertà e responsabilità nel personalismo di E. Mounier, in Libertà e responsabilità, a cura del Centro di studi filosofici di Gallarate, Gregoriana, Padova, 1967, p. 110.

14) Cfr. Malusa, Giudizio morale e giudizio storico, p. 132.

15) Cfr L Stefanini, Personalismo sociale, Studium, Roma, 1952, passim.

16) Si pensi a Lucrezio che vede gli uomini nascere dalla terra "madre" fin che essa non "smise come una donna sfibrata dalla vecchiaia" per lasciare che gli uomini, diversamente sessuati, procedessero da soli (De Rerum natura V).

17) In Lucrezio la poligamia è all'origine e la monogamia è una conquista di civiltà. Per Nietzsche, è noto, la monogamia è una corruzione e un regresso.

18) Il ritornello è costante. Nel Libro di Ester troviamo questa preghiera: "Ho sentito, fin dalla mia nascita, (...) che Tu Signore hai scelto Israele da tutte le nazioni e i nostri Padri da tutti i loro antenati, come una eterna eredità" (4, 17 m).

19 Vedremo come anche i Greci avessero costruito il concetto di "barbaro".

20 Gli Amaleciti che Mosè e Giosuè avevano voluto sterminare non erano più uomini (vere persone), ma dei "segnati" da Dio. E gli sterminatori erano uomini, pur avendo la coscienza di ubbidire a Dio?

21) Lo stesso discorso vale, a fortiori, per la Chiesa (o per le Chiese). Appena essa diventa un medium quod, intralcia, da capo, la fratellanza. Non può essere un nuovo gruppo (il buono tra i cattivi); ma l'unione di coloro che proclamano la non esistenza di gruppi o di popoli eletti. La pace emergerà nel mondo quando cadranno le selve dei medium quod.

22) Curiosa anche l'etimologia di "persona". Per i Greci "prosopon" è maschera teatrale - ciò che è messo davanti agli occhi - quindi "personaggio di cui si amministra la titolarità". Per i Latini la "persona" era la maschera che a guisa di piccolo echeo faceva risuonare con forza (personare) il volume della voce. Si dice che la riflessione cristiana ha tolto al "prosopon" (alla persona) il significato di maschera e di attore, dandogli quello di uomo, soprattutto quando ha portato la sua attenzione sulla Persona e la Natura di Cristo. Ma si trattava di eliminare delle "contraddizioni" nel mondo divino (Trinità), più che definire nella sua assolutezza l'uomo. L 'uomo, ahime, sarà sempre in fluttuazione su qualche "mare". Il Figlio fu chiamato "persona" (con due nature); però quel termine adottato dalla teologia latina, non è la traduzione del greco "prosopon" (ma viceversa). Tutto bene. Poi, quando la ricerca scientifica viene portata sull'uomo esplode la definizione di Boezio ("naturae rationalis individua substantia", PL,64, 1343). Resta tuttavia la concezione del mondo come teatro messo in atto da un Dio creante per cui la divisione delle "persone" (o maschere) è scandita in uomini liberi e servi, padroni e schiavi, principi e sudditi. Tutte maschere, uguali come "persone", ma diseguali come ruoli. Più tardi si dirà che lo schiavo è uomo non persona e ciò perché l'uomo è realtà naturalistica, la persona realtà politica. Alle Termopili - dirà Erodoto - vi erano molti "esseri umani (anthropoi) ma pochi uomini (andres)". S. Giacomo dirà: "Se nella vostra adunanza entra un uomo inanellato d'oro con una veste splendida e gli dite: "Tu siedi qui comodamente"; mentre al povero dice: "Tu sta là ritto", oppure: "Siedi qui ai piedi del mio sgabello", non fate forse preferenze dentro di voi?". Avicenna ha questo flash: "Passa un uomo, chiedo che sia. Si risponde: "Un operaio". Può darsi; ma ciò che passa non è un operaio, è un uomo che esercita la funzione di operaio". Al colloquio tra Lutero e il vescovo di Treviri è presente l'umanista Giov. Cocleo. Il tema riguarda la comunione sotto le due specie. "Il sacramento - dice Lutero - è più chiaro sotto i suoi due elementi riuniti". Cocleo ribatte: "Lo so, ma si corrono più rischi, poiché dare il calice a persone poco coltivate, sconfina facilmente in mancanza di rispetto. Da qui le ragioni serie della Chiesa per distribuire la comunione sotto la sola specie del pane". Come si vede la Chiesa non è più l'accolta degli uguali, ma dei diseguali consacrati tali dalla Chiesa.

23) Cfr. E. Gilson, Il personalismo cristiano, c.X, in Lo spirito della filosofia medioevale, Morcelliana, Brescia, 1947.

24) Cfr. nella tr. it. di B. Croce, Laterza, Bari, 1973, II, p. 442 sgg.

25) Cfr. G. Dilthey, L'analisi dell'uomo e l'intuizione della natura dal Rinascimento al sec. XVIII, La Nuova Italia, Venezia, 1926, I, p. 261.

26) Sul tema cfr. il nostro saggio Quale educazione cristiana, Ed. Nuova Riv. Pedagogica, Roma, 1976, p. 31 sgg.

27) Sul tema cfr. il nostro saggio Francesco tra Chiesa e Vangelo, Libr. Ed. Fiorentina, Firenze, 1985, p. 171 sgg.

28) A titolo di esempio citiamo l'economista cattolico G. Toniolo. Egli ammette che il Vangelo è predicato ai poveri, ma termina col dire che "la gerarchia sociale invero - che ha radici nell'umana natura, nel cosmo e fìnanco, come fu detto, si riproduce fra gli angeli in cielo - di continuo si ricompone per un latente lavoro organico" (cfr. la cit. nel nostro saggio Quale educazione cristiana. p. 161, nota 206).

29) É vero, neanche Aristotele si sente a suo agio quando Alessandro Magno scrive agli Ateniesi firmandosi "Figlio di Ammone" (e non figlio di Filippo) e negherà che la storia sia "scienza" giacche si ha scienza solo dell'universale, mentre la storia dice soltanto ciò che Alessandro fece e patì, senza produrre alcuna "verità". Eppure giustificherà, sebbene non con argomenti metafisici, la schiavitù.

30) S. Tommaso (S. theol. II-II, 64, 2) si domanda "se sia lecito uccidere i peccatori". Per dire che è lecito comincia col far uso di analogie: gli animali bruti si possono uccidere in quanto ordinati alla utilità dell'uomo - si tratta di un caso in cui una cosa meno perfetta è ordinata alla perfetta -; la parte, infatti, per natura, è ordinata al tutto. A volte si taglia un membro per salvare tutto il corpo: "Ciascun individuo sta a tutta la comunità come una parte sta al tutto"; lo stesso Aristotele aveva detto: "La città è anteriore all'individuo". Come si vede la consistenza ontologica dell'individuo si sta sbriciolando dentro a rimandi anonimi (sul tema, dr. il nostro saggio La pena di morte fra sociologia e pedagogia, Reggio Emilia, 1978, p. 47 sgg.).

31) S. Bonaventura viene presentato da E. Gilson come uno dei due o tre migliori interpreti del personalismo cristiano. L'idea di persona, infatti implica quella di individuo, con l'aggiunta di una certa dignità. L'individuazione gli viene dall'unione della sua materia e della sua forma (e non dalla sola materia). La dignità poi gli viene principalmente in ragione della forma. La personalità quindi è una qualità della forma in quanto tale. Eppure S. Bonaventura, grande spiritualista in sede filosofica, è supinamente fatalista in sede sociale: egli sostiene la società tripartita dell'assetto medioevale (orantes, defensores, laboratores).

32) E. Gilson ci fa sapere che Riccardo di S. Vittore aveva proposto di modificarla in questo modo: "Persona est intellectualis naturae incommunicabilis existentia". Duns Scoto è favorevole alla modifica perché l'anima è individuale in quanto forma, e anche l'anima separata è una persona.

33) Eppure S. Tommaso (S. theol. II-II, 63, 2.3) parla dell'accettazione delle persone. Per "persona" egli intende la dignità della persona e la "dignità" riguarda la giustizia distributiva. Anche Dio fa "accettazione di persona" (ne prende una e ne lascia un'altra). Dunque a persone diverse si tributano onori diversi. Prelati e Principi sono da onorare anche se cattivi, cosi i genitori, cosi i padroni dai servi. Principi e Prelati, poi, sono onorati in quanto "gerunt personam Dei" e della comunità cui presiedono. Qualche secolo più tardi il Padre Massillon dirà ai nobili della corte di Francia: "Non il caso vi ha fatto nascere grandi e potenti. Dio, dal principio dei secoli, vi aveva destinati a questa gloria temporale (...) segregati dalla folla per lo splendore dei titoli e della distinzione umana" (cfr. il nostro saggio Pedagogia e Vangelo, Milano, 1974, nota 119).

34) Cfr. Gilson, Lo spirito della filosofia medioevale, c. X. M Cfr. C. Gent. III, 117; IV, 54 e S. theol. 1-11,27,3.

35) Rileggiamo il famoso passo: "Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo "riconoscete il Signore" perché tutti mi conosceranno, dal più grande al più piccolo" (Ger. 31, 33). Geremia accusa di insufficiente garanzia "oggettiva" la "consuetudine" (ricordiamo i "nomoi" citati da Erodoto) o la "tradizione" trasmessa da uomo a uomo e sente che per uscire dal ciclo dell'"eterno ritorno" occorre ipotizzare una "nuova alleanza", o un intervento, del "Fuori sistema".

36) Eppure S. Tommaso non fu "formalmente" antisemita. In quanto filosofo cercò una giustificazione al dato e allo status quo istituzionale, come il suo maestro Aristotele. Sul tema rimandiamo a La questione ebraica di Marx. Citiamo alcune battute: "Fino a che lo Stato rimane cristiano e l'Ebreo Ebreo, ambedue saranno egualmente incapaci tanto di concedere che di ricevere l'emancipazione (p. 48) (...) Il cristianesimo è scaturito dal giudaismo. Nel giudaismo esso è nuovamente dissolto (p. 86) (...) L'emancipazione sociale dell'Ebreo è l'emancipazione della società dal giudaismo" (p. 88). Cfr. Ed. Riuniti, Roma, 1974.

37) Cfr. L'educazione umanistica e la persona, La Scuola, Brescia, 1958, p. 301. In nota L. Meylan ricorda che "le religioni "chiuse" univano con vincoli fortissimi i membri di un gruppo nazionale o etnico, ma opponendoli a tutti gli altri gruppi. Bergson chiama "vero misticismo" il sentimento dell'essere "nelle mani" di un Dio che ama tutti gli uomini di eguale amore e prescrive loro di amarsi a vicenda, unisce fra loro tutti gli esseri umani e da solo fonda un'autentica comunione di persone".

38) Nel Buddismo, per es., non esiste un se, ne individuale ne universale. La liberazione non è la conquista da parte dell'uomo della pienezza della sua personalità, ma consiste nell'annihilazione della persona, del se, in quanto falso e illusorio e radice del "desiderio". Nel Buddismo non c'è un Dio Padre che si pone come perfezione infinita cui l'uomo deve modellarsi per entrare nel Regno. Eppure è una religione universalistica. A tutti gli uomini è rivendicato un eguale destino e dove è stato predicato è scomparsa la guerra, la pena di morte, la persecuzione, le cacce assassine e nascono ospedali per uomini e anche per animali. La morale positiva insegna il perdono delle offese, il sacrificio per gli altri. L'ultima frase di Budda ai discepoli suona così: "Lottare senza posa" (Cfr. anche Buddismo e persona, "La Civiltà Cattolica", 1984, 3 nov.).

39) É curioso notare come il pensiero laico prenda, come punto di riferimento, il principio kantiano che vede nell'essere umano un fine e mai un mezzo. Saggiamo, sul tema, due autori contemporanei come Nicola Abbagnano e Agnes Heller. Per N. Abbagnano la possibilità di individui che nascono senza una famiglia (in vitro) "con più di una madre e chi sa quanti padri" è materia da fantascienza pratica. A suo giudizio "occorre fissare delle regole, e la prima di queste è che ogni essere umano deve essere trattato come un fine, non come un mezzo. Chi vuole un figlio a qualsiasi costo, anche facendosi prestare il seme da un altro uomo o l'utero di un'altra donna, vede nel nascituro soltanto un mezzo per essere più felice, per soddisfare il suo senso materno o paterno. E questo non è il modo giusto di desiderare un figlio" (cfr. "Corriere della sera", 17 marzo 1985, p. 3). A. Heller, toccando lo stesso argomento, concede alle coppie non fertili il ricorso a uno dei nuovi metodi di riproduzione come l'inseminazione con lo sperma congelato del marito morto. Ma ammette che altrove "comincia il problema". Ed ecco il riferimento a Kant: "La disapprovazione morale ha ragion d'essere quando degli esseri umani usano altri esseri umani come meri strumenti". Tutto sta a vedere come si dovrà interpretare quel principio, giacché nessun principio morale sfugge alla ermeneutica. "Se degli uomini offrono il loro sperma a una banca dello sperma, e delle donne si lasciano inseminare con quello sperma, esse non usano affatto gli uomini come strumenti. Gli uomini "come persone" non vengono usati in questo processo". La Heller prevede l'obiezione: "Benché le donne in questione poi usino gli uomini, esse usano i bambini come meri strumenti della propria felicità e della propria soddisfazione, in quanto li fanno di proposito orfani di padre". La Heller risponde dicendo che "forse in un lontano futuro, sarà "naturale" o quasi che i bambini vengano allevati solo dalla madre (...) ma per ora non è cosi". Strano il fatto che la Heller, in nome del futuro, non si avveda che l'allevamento dei bambini "solo dalla madre" appartiene al passato, all'epoca descritta da Lucrezio in cui i padri non conoscevano i figli. Senonché Lucrezio considera "progresso" il momento in cui i padri "videro nascere i propri figli", mentre per la Heller sembra una "conquista" da rimettere in divenire. Non si vede perché sia proibito ipotizzare un futuro allietato dalla schiavitù, poiché, in nome del principio kantiano io utilizzerei non lo schiavo ma le sue opere. Sembra tuttavia che anche per la Heller esistano dei casi non più riapribili alla soluzione opposta, nemmeno in nome del "futuro", e in omaggio al principio kantiano: "Se una donna usa lo sperma di un uomo senza il suo consenso o se, avutone il consenso, impedisce al bambino un rapporto con il suo padre naturale; se una donna lascia che il suo bambino sia trapiantato nel grembo di un'altra donna per risparmiarsi i dolori e le tensioni della gravidanza, e paga in contanti per questo servizio (...) in tutti questi casi (e quelli affini) (...), le pratiche di riproduzione oggi considerate "artificiali" devono essere disapprovate da un punto di vista morale". Sempre perché l'uomo o la donna o il bambino "possono essere usati come semplici strumenti" (cfr. A. Heller, Il seme della ragione. "Panorama", 3 dic. 1984, p. 161).

40) Nella lntrod. alla versione Dei delitti e delle pene Karl Ferdinand Hommel ha questa osservazione: "È una pura coercizione e un martirio della coscienza che il Principe costringa gli Ebrei a frequentare chiese cristiane, affinché possano venir convertiti, o che egli dica ai suoi sudditi: "lo voglio, perché lo vuole l'Arcivescovo, condurvi a forza alla comunione e alle prediche e voi dovete essere puniti se tralasciate di pregare nelle ore prescritte".

41) Citiamo da Dilthey, L' analisi dell'uomo.

42) Viceversa il Padre Perico - Gesuita della nostra epoca - afferma la "intoccabilità radicale della vita umana" perché il diritto di vita e di morte sugli esseri umani è di "esclusivo dominio di Dio" e cita a conferma Pio XII .(cfr. il nostro saggio, La pena di morte, p. 67).

43) Per i riferimenti cfr. La pena di morte, p. 68 sgg.

44) Colui che aggredisce questo fianco scoperto del marxismo è Nicola Berdiaeff. Nel saggio Personalità umana e marxismo, in Il comunismo e i cristiani, Morcelliana, Brescia, 1946, egli dice che "la persona è l'immagine di un essere superiore a tutto ciò che è naturale e sociale (...) Essa non può essere parte di chicchessia. Ora la società tende a considerare la persona come individuo a lei sottoposto, come una sua creazione". E ciò fu vero anche per la "società cristiana". Non a caso sarà Berdiaeff a domandarsi "come mai il Cristianesimo, dopo tanti secoli, non è riuscito a tradurre nella viva realtà i suoi principi di giustizia sociale?". L'errore è sempre lo stesso: insidia all'autonomia della "persona" mediante rimandi: "L'antipersonalismo di Marx è l'eredità dell'antipersonalismo di Hegel: quest'ultimo riconosceva il predominio del generale sull'individuo; ai suoi occhi la persona non ha valore indipendente, non è che funzione dello spirito universale". Inoltre "l'antipersonalismo del marxismo deriva egualmente dalla sua erronea concezione del tempo (...) considera la relazione tra il presente e l'avvenire come una relazione tra i mezzi e il fine (...) nel presente l'uomo rimane spogliato". A giudizio di Berdiaeff "non solo il personalismo cristiano non deve opporsi alla creazione di una società senza classi, ma deve invece incoraggiarla".

45) Cfr. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene. Con una raccolta di lettere e documenti, a cura di P. Venturi, Einaudi, Torino, 1978, p. 2l1 sgg. La lettera è scritta da Cremona in data 31 gennaio 1768.

46) Ci sembra, invece, improntato a maggiore rigore culturale l'art. L'Eglise et les droits de l'homme,;jalons d'histoire di E. Hamel, S. J., pubblicato in "Gregorianum " , 1984 (65/2-3), p. 271 sgg. L'autore si domanda quali sono le ragioni del ritardo della Chiesa sul tema dei "diritti dell'uomo" e compie uno sforzo ermeneutico per capire come le libertà fondamentali - i diritti dell'uomo, la libertà di pensiero, di stampa, di insegnamento, la libertà religiosa - furono conquistate contro la Chiesa. L'autore fa altresì notare che nel problema sono implicate le chiese, quindi Protestanti e Ortodossi. Presso gli Ortodossi la dottrina dei diritti dell'uomo - assimilata a un prodotto del razionalismo occidentale - è interpretata come l'espressione di una orgogliosa auto-affermazione dell'uomo contro Dio (e a volte lo era) e fu vista come estranea alla Tradizione, ha quindi suscitato diffidenza. In ambito Protestante - lo nota R. Mehl - l'idea di un diritto che apparterrebbe all'uomo in quanto uomo fa difficoltà. Il solo diritto che egli possiede è quello di obbedire prima a Dio poi a coloro che lo rappresentano sulla terra. L'autore conclude dicendo che "anche un riconoscimento puramente secolare dei diritti dell'uomo, da parte di chi ignora l'esistenza di Dio creatore, conserva il suo valore in quanto ammette un certo assoluto". Può portare alla scoperta del Dio vero. Non c'è, dunque, nulla di ingiurioso per la religione a che i diritti dell'uomo siano "ricuperati" dalla ragione.

47) Precisiamo qui che, sia la concezione classica del mondo che la concezione biblica, ruotano attorno al concetto di "teismo monoteistico/politeistico". Ciò che ne risulta è una "religione" che ha sempre alle costole la riflessione laica della ragione. Il logos continua la sua opera di chiarificazione su chiunque inventa delle "religioni" per assicurarsi il "di più" della salvezza oltre la storia. Alle costole del teismo classico troviamo Isocrate, alle costole del teismo biblico troviamo Kant. I teisti sinceri ed affidabili sono soltanto due: Socrate e Cristo. Il primo perché ha tenuto il logos aperto sulla trascendenza, il secondo perché è il Logos per antonomasia. Marco Aurelio, per es., pur essendo teista in forza della ragione - egli rifiuta la "irrazionalità" originaria e il caso (Pensieri, VII, 75) - non arriva a dedurre il rispetto della persona. Perseguita i cristiani, è il terrore dei "barbari" e li vuole sterminare come le mosche, si sente capo di un impero centralizzato, guidato e voluto dalla "Provvidenza"; ora proclama la pace eterna, ora distrugge un intero popolo perché "così era stato stabilito", odia il sangue, ma non quello sparso per fare la "guerra giusta" e ordina di mettere in mano ai morituri (gladiatori) armi spuntate. È superfluo osservare che esistono analogie fra il "teismo" di Marco Aurelio e quello, per es., di Carlo Magno.

48) Per tale motivo Platone non vuole la poesia di Omero nella sua Repubblica, ad eccezione degli inni agli Dei e degli Encomi dei buoni (Resp. 607 a). Nell'inno a Demetra, per es., Omero prospetta l'educazione come un superamento della pura immanenza: tempera al fuoco di ciò che si è per fare spazio a ciò che si deve diventare (immortali).

49) Cfr, G. Colli, La Sapienza greca - Eraclito, Adelphi, Milano, 1980, p. 35.

50) Non dimentichiamo che all'epoca della tratta dei negri i mercanti, spaccarono il fronte dei teologi, portando l'attenzione sul caso di Noè. Dopo aver scoperto il comportamento dei tre figli, in occasione della sua ubriachezza, il Patriarca disse a Cam: "Tu sarai schiavo dei tuoi fratelli". Da qui l'irruzione di un "comando" divino nella storia e la trasformazione di un dato in una legge di natura, dedotta dal suo Autore.

51) La stessa disgrazia è accaduta al "povero" in area cristiana. La sua presenza non ha creato scandalo perché se ne è fatta risalire l'origine a Dio. Curioso il fatto che gli schiavi affrancati ad Eleusi venissero dichiarati "appartenenti ad Apollo", ma ciò non proibiva né ad Eleusi né ai sacerdoti di Eleusi di possedere terre con schiavi e schiave a loro servizio. La "religio" non sana le "contraddizioni", le amministra in posizione egemone. La stessa disavventura è toccata al cristianesimo nella misura in cui si è appiattito in "religione". In epoca romana circolava questo "caso" di morale sociale: un cavaliere attraversa, con barca e schiavo, il Mediterraneo; raggiunge l'Africa e trova l'oro; lo carica sulla barca e punta su Roma; è sorpreso dalla tempesta; che fare? Gettare l'oro o lo schiavo? lo schiavo, naturalmente. A Roma, infatti, si potevano trovare molti altri schiavi, ma non l'oro.

52) Cfr. S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, I, Laterza, Bari, 1966, p.327.

53) Quando Menone dice che la virtù in generale è la capacità di comandare gli uomini, Socrate chiede se tale è anche la virtù "del servitorello e dello schiavo". Chiede cioè se questi sono capaci di governare il proprio padrone. Menone nega e Socrate, ironicamente, dice che sarebbe, appunto, "assurdo". Ma, più oltre, partendo dal principio che l'anima è "immortale" e che quindi non c'è nulla che non abbia appreso "lassù" (o "laggiù"), porta in scena uno schiavo (greco) per provare la teoria della "reminiscenza". Forse Socrate intendeva dimostrare, per quella via, che schiavo e padrone sono ontologicamente uguali.

54) Sarà questo l'ideale pedagogico di Socrate: cambiare la natura umana mediante l'aiuto del theion e della paideia. Ma Tucidide, come sappiamo, non menziona mai Socrate, perché Socrate coltiva il "pensiero" e non l'"azione". Nell'odierno dibattito fra "genetisti" e "ambientalisti" Theodosius Dobzhansky (cfr. Diversità genetica e uguaglianza umana, Einaudi, Torino, 1965) ha detto una parola chiave: "L'uguaglianza umana ha a che fare con i diritti e l'inviolabilità dell'esistenza di ogni essere umano, e non con caratteristiche corporee o anche mentali". Dunque l'eguaglianza si gioca nella "visione del mondo" e non nella fattualità genetica; anche se a tutt'oggi i responsi della "scienza" sono unitari: "Non esiste la cosiddetta superiorità razziale".

55) Rileggiamo il famoso passo: "Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo "riconoscete il Signore" perché tutti mi conosceranno, dal più grande al più piccolo" (Ger. 31, 33). Geremia accusa di insufficiente garanzia "oggettiva" la "consuetudine" (ricordiamo i "nomoi" citati da Erodoto) o la "tradizione" trasmessa da uomo a uomo e sente che per uscire dal ciclo dell'"eterno ritorno" occorre ipotizzare una "nuova alleanza" o un intervento, del "Fuori sistema".

56) L 'handicappato e il "folle" sono "imperfetti" rispetto al modello normativo, ma non cadono nel versante di un'altra specie.

57) Anche relativamente al cosiddetto "fatto morale" siamo "tabula rasa". Nulla è scritto ne nel nostro spirito ne nel nostro intelletto e ciò che è scritto nella storia è "contraddittorio". Dobbiamo, dunque, costruire tutto. E come sul piano "scientifico" esistono conquiste di individui e di gruppi, così sul piano morale. Ma mentre sul piano scientifico la "verità" è decisa dal "risultato" e, quindi, dal superamento della discrasia fra "spirito" e "realtà"; sul piano morale il superamento della "contraddizione" consiste nel risolvere il malessere esistente tra "spirito" e "spirito", tra il mio io e gli altri io.

58) Ciò è dovuto a "trascendente giustizia". Presso i Romani l'essere patrizio o plebeo è "dato originario" ed essendo anteriore alla stessa natura umana è assorbente della persona. Dopo la pubblicazione delle XII tavole - dice Livio - andò delusa la speranza dei plebei di potersi imparentare con i patrizi. I primi, infatti, insistevano sul fatto che cosi la città era divisa; i secondi insistevano sulla divisione della persona: "Permettere i matrimoni misti - dicevano - vuol dire fare in modo che il figlio sia mezzo patrizio e mezzo plebeo: una personalità divisa in se stessa" (cfr. LIV. Hist. IV, 4).

59) Si può capire, forse, in questo contesto il colpo di gong del "prologo" giovanneo: "In principio era il Logos". Si scavalca in un sol tratto sia i "logoi" delle città greche (assai "risibili" a detta di Ecateo); sia il Genesi che pure aveva detto: "In principio Dio creò il cielo e la terra".

60) Per i riferimenti su Spinoza, cfr. G. Campana, Etica e valori in Spinoza, in AA.VV., Il valore. La filosofia pratica fra metafisica, scienza e politica, Gregoriana, Padova, 1984, pp. 162-174.

61) Michel Meslin (cfr. La funzione antropologica del monoteismo, "Concilium", 1/1985), si domanda se il monoteismo è fattore di sviluppo della persona e se origina la responsabilità individuale intesa come fondamento della nozione di "persona umana". Risponde, dicendo che la persona si è affermata in occidente non certo perché il fattore religioso ne è stato la prima causa. Mettersi una maschera è sostenere una parte e iniziare un nuovo modo di esistere, ma anche far parte di un totem. Nelle città dell'Ellade non si è affermata la "persona umana" in forza del monoteismo. Tale nozione si è formata partendo da una meditazione etica sul ruolo occupato dall'uomo nel mondo. I vari culti misterici più che far sviluppare la persona le danno sicurezza. Il monoteismo non è per se "personalizzante". La persona non è mai un dato di fatto naturale, ma appare come il prodotto di una storia propria di ciascuno, di "un io-con che è coscienza di se, dell'altro e del totalmente Altro". Il dramma consiste nel fatto che Dio non può essere definito dall'uomo e che l'uomo non ha la sua origine in se stesso. L'uomo si perde come persona sia quando tenta di definire Dio o di farsi definire da Dio, sia quando cerca la sua origine in se stesso. Eraclito aveva detto: "Ogni opinione è una malattia sacra".

62) Si noti che per i francesi Volpe è Renard (maschile). Per il testo cfr. Ed. Bodoni, Parma, 1814, l. I, XVIII.

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